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Rotta sbagliata sulla “Vittor Pisani” - 13

  • Scritto da Eliogabalo

Il tredicesimo episodio di un racconto inedito di Eliogabalo pubblicato a puntate su IteNovas.com

La Sardegna e l’Italia, pian piano, stavano dimenticando il periodo nero legato alla guerra, e lasciavano spazio a una nuova fase che portava con sé la speranza del cambiamento e del rinnovo.
Non si può dire che questi cambiamenti tardarono ad arrivare. Subito dopo la fine della guerra questa terra che cercava di riprendersi dagli sconquassi del conflitto appena giunto al termine, voltò pagina in maniera radicale.
Faccio riferimento al referendum del 2 giugno del 1946, dove grazie a brogli elettorali, oppure no, nessuno può dirlo con assoluta certezza, il Regno d’Italia lasciò il posto alla Repubblica Italiana.
Un cambiamento che fece sperare nella vera e propria rinascita di un nuovo Paese, più maturo, dopo aver passato sette anni nell’anticamera dell’inferno.

Per molti, tutto ciò, venne interpretato come il vero sintomo di una trasformazione, che in qualche modo meritavano tutti. Ma fu solo un illusione che morì il giorno dopo il referendum, e perpetuò nel suo stato con l’avanzare del tempo, poiché il grande progetto rivoluzionario non colpì in egual maniera tutti i poveri sventurati, stipati a bordo della grande bagnarola Italia.
Ogni qualvolta mi capita di parlare di questa svolta storica e di quelle immediatamente successive, non posso non pensare alle parole del sergente Nicola Lo Russo ( Diego Abatantuono) nel film Mediterraneo di Gabriele Salvatores, pronunciate verso la fine del film, quando gli inglesi arrivarono in quella piccola località greca che li vide ospiti desiderati per tre lunghi anni. In quel frangente, tutti si apprestavano a raccattare le poche cose che avevano per poter salpare alla volta dell’Italia, tutti tranne il soldato semplice Antonio Farina ( Giuseppe Cederna ) che trovò in quel posto mozzafiato, una moglie, e per la prima volta una casa.

Ora non voglio raccontare il film nei minimi particolari (allo stesso tempo consiglio a chi non l’avesse visto di guardarlo), ma voglio fare riferimento alle parole del sergente in due scene peculiari: la prima, quando Lo Russo cerca di convincere il Farina a lasciare la Grecia per l’Italia con queste parole: “ Tonino sta cambiando tutto! C’è da rifare l’Italia, ricominciamo da zero, c’è grande confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente, dai! Andiamo! Costruiremo un gran bel paese per viverci te lo prometto!”.
La seconda invece, quando dopo anni, il sogno del sergente si dimostrò una stupida illusione: “Non si viveva poi così bene in Italia, non ci hanno lasciato cambiare niente! E allora gli ho detto: avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice!”.
Queste parole, dal mio punto di vista, sono emblematiche per capire che, questo importantissimo processo storico, non si dimostrò caricò di opportunità come si sperava.

Nonostante tutto erano periodi difficili. Uno stato come il nostro si trovò a pagare caro il prezzo della guerra. Oltre a tutti i caratteri tipici di un periodo post bellico come la fame e la povertà, che colpirono soprattutto le migliaia di famiglie orfane di uomini, le quali sopportavano in un silenzio assordante il loro inferno che non veniva meno, bisogna considerare anche i problemi di carattere nazionale e internazionale. L’Italia la guerra in fin dei conti l’aveva persa, e per questo si ritrovò a dover pagare milioni di dollari per sanare i debiti nei confronti degli stati che subirono maggiormente l’influenza dell’occupazione. Soldi ottenuti grazie alla gentile concessione dei nostri salvatori Stati Uniti, con il così detto Piano Marshall. Dovette cedere territori a Francia e Jugoslavia e le flotte, e parte degli armamentari vennero consegnati agli stati vincitori, oltre a perdere tutte le colonie in suo possesso.

Come tutti gli altri stati sconfitti, si ritrovò invasa da eserciti stranieri ( come la Germania). Condizione questa, che mise in crisi la sua identità di potenza in competizione con il resto del mondo.
Ma le cose nel giro di poco tempo cambiarono. Con lo scoppio della guerra tra i due imponenti blocchi che si contendevano il mondo intero, la famosa Guerra Fredda, e delle sue guerre derivate, la nostra cara vecchia, o per meglio dire, nuova Italia, in qualche modo, si trovò coinvolta in un grosso processo di crescita dell’industria pesante, per soddisfare il fa bisogno di metallo e altri materiali consoni, per protrarre la guerra fino a data ancora oggi da stabilire.

Questo momento, mise le basi per una crescita economica, chiamata anche il “miracolo italiano” che culminò agli inizi degli anni 70.
Questo boom economico venne coadiuvato da un incremento vertiginoso del commercio internazionale, dalla disponibilità di utilizzo di nuove fonti di energia, ma soprattutto  dal bassissimo costo del lavoro che demolì, oltretutto,  l’alto tasso di disoccupazione dei primi anni 50.
E in Sardegna? Beh le cose in questa terra travagliata andavano in senso opposto rispetto al resto del continente, oppure tremendamente a rilento. Nonostante tutto, anche gli abitanti dell’isola fecero il loro dovere alle urne alla fine della guerra, dove il 60% dei votanti si espresse a favore del rinnovo della monarchia. Paradossale vero? E altrettanto paradossale fu il fatto che, questo curioso fenomeno di sfiducia nei confronti della repubblica, non avvenne solo nella nostra isola. Se vi state chiedendo come sia stato possibile allora virare, in maniera così risolutiva, per tracciare una rotta verso il tripudio di una democrazia farlocca, io non posso di certo saziare la vostra fame di conoscenza.
Quindi se l’Italia era da ricostruire, la Sardegna era da costruire.

Grazie ai fondi stanziati per la rinascita dell’Italia, in Sardegna, alcune fondazioni parteciparono in maniera attiva alla lotta anti-anofelica, ovvero si impegnarono per far sì che finalmente nell’isola la malaria venisse estirpata una volta per tutte.
Tantissimi giovani, reduci e non, come  il nostro Salvatore Bassu parteciparono a questa campagna, percorrendo la Sardegna da cima a fondo. Che dire, ironie a parte, fu un vero e proprio intervento provvidenziale, che diminuì drasticamente il tasso di mortalità nella fattispecie infantile.
Ma nonostante questo successo, i grossi drammi che la nostra cara Sardegna dovette affrontare, furono legati alla gestione governativa dell’isola. Un tema sempreverde che ci dà da pensare ancora oggi.

Le classi politiche sarde, almeno quelle che ritrovarono l’essenza sardista dopo la prima guerra mondiale, persero di consistenza. Rimasero legate ai partiti nazionali e veicolavano così, in maniera subdola, il completo disinteresse degli esponenti della terra ferma, nei confronti di un’isola che avrebbe avuto bisogno di molta più attenzione.  Al tempo coloro che avrebbero potuto regalare un destino migliore  alla Sardegna, non lo fecero, deludendo le aspettative di chi credeva fermamente a un progetto di costruzione, perché no, di matrice indipendentista. Ciò che ottenne l’isola, fu solo il titolo di Regione a Statuto Speciale, insieme ad altre regioni, contemporaneamente alla redazione di una moderna costituzione per una nuovissima repubblica.

Chissà se abbia sortito qualche effetto questa nuova nomenclatura, oltre naturalmente ad apparire scritta nelle scartoffie formali, promulgate dagli uffici della regione.
Di per certo noi poveri mortali, non sappiamo molto dell’efficienza di questa nuova versione della Sardegna nata alla fine degli anni 40, ma sappiamo sicuramente che codesta questione, creò non poca confusine in chi cercava di comprendere di che natura fosse il suo essere cittadino in questa nostra sventurata terra.

Ma in questo panorama socio-politico, tutt’altro che rassicurante, in quelle “miniere esauste del Montiferru” D’Annunzio dixit, all’interno di una chiesa campestre in una borgata a pochissimi chilometri dal villaggio di Salvatore, un uomo che concesse la sua anima a Dio, metteva un sigillo eterno e divino all’amore fra due giovani nati già adulti per necessità.
Celebrare un matrimonio in un posto che non sentiva l’affanno del mondo che girava ancora più veloce di un tempo, pareva essere una delle tante benedizioni che il nostro buon pastore  potesse concedere.

Una chiesa di origini medievali, costruita letteralmente ai piedi di una sorgente d’acqua di inimitabile purezza. Una costruzione immersa nel verde di muschi, aghifogli e querce che si spingono in alto fino a toccare il cielo. Piante che fanno ombra su un mondo circostante che si estende verso sud formando fertili vallate che si perdono all’orizzonte, mentre a nord, montagne aride tracciano un piccolo confine con il Marghine.
Un posto incantevole, il quale mi piace osservare in particolar modo a cavallo tra maggio e giugno, quando i campi mietuti vengono colorati dal crepuscolo di una primavera che si sta per concedere all’estate, mentre un vento amico di montagna porta freschezza e profumi campestri di ogni sorta.

Bene, in questa chiesa che ho tanto decantato, Salvatore prendeva in sposa Vittoria. La sua Vittoria. Quella a cui promise che la morte non avrebbe messo mano alla sua vita per recidere il loro amore.

“ Lo ricordo come se fosse ieri” disse Salvatore “ Il giorno più bello della mia vita. Niente, oltre la nascita dei miei figli, riempì il mio cuore di una gioia di tale portata. Gioia giustificata dico io, perché vedi, eccomi qua, ancora con lei al mio fianco. Questo vuol dire che l’amore ancora funziona o no? Quasi settant’anni di matrimonio. Ma io ora me ne sto andando, e nonostante tutto sono contento di aver avuto la possibilità di ricordare con attenzione questi passaggi della mia vita.” Ci fu un lungo momento di silenzio, tutt’altro che imbarazzante. Fu necessario per far sì che tutti e due somatizzassimo l’esperienza e le parole appena pronunciate. La morte era nella stanza e Salvatore lo sapeva. Avevano peregrinato tanto e forse era giunto il momento di trovare, finalmente, il riposo meritato, per una vita vissuta senza esclusione di colpi.

“Ho sempre pensato al disastro in quella maledetta nave” disse improvvisamente interrompendo il rigoroso silenzio. Mi colse di sorpresa, poiché nel dirlo, l’umore che fino a qualche secondo prima fu lieto, si macchiò di piccole sfumature grigie che  resero Salvatore in qualche modo triste.
“ Ogni giorno, anche se per pochi secondi, io ricordo il fragore di quella nave ce si accartoccia. Ricordo i miei compagni morti dentro quel carro, e poi penso alla mia fortuna. Nel mio piccolo me ne vado da uomo fortunato”.

Dopo quel giorno non vidi più Salvatore.


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Rotta sbagliata sulla “Vittor Pisani” - 1

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