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Rotta sbagliata sulla “Vittor Pisani” - 1

  • Scritto da Eliogabalo

Il primo episodio di un racconto inedito di Eliogabalo pubblicato a puntate su IteNovas.com

Salvatore Bassu era un uomo di poche parole. Il giorno che ha deciso di andare via da quel mondo che aveva conosciuto fin troppo bene, se ne andò in silenzio, senza discutere. Senza troppe lamentele. Quando arrivò la sua ora prese per mano la morte che lo corteggiava ormai da tempo, e senza perdersi in chiacchiere la costrinse a portarlo dove avrebbe potuto riposare finalmente per l'eternità. Si conoscevano bene loro due, e non azzardo se dico che nel corso della sua vita la morte abbia imparato a rispettarlo. Lei lo conosceva già da prima che nascesse, ma si rese conto di quale fosse la natura della sua tempra quando sentì per la prima volta il suo sommesso lamento in braccio all'infermiera il giorno della sua nascita. Un lamento composto, riservato, come se Salvatore Bassu avesse già capito come ci si dovesse comportare in un mondo che bello, in fondo, non lo era per niente. Il giorno che la morte lo prese con se lo guardò sorridendo, non perché alla fine anche un uomo come lui dovette cedere all'ineluttabilità della vita, ma perché finalmente arrivò per lei l'incontro atteso con un amico, con un animo nobile, diverso dagli altri, che non riuscì a tenere indifferente un entità divina come lei. Se ne andò in un giorno uggioso accompagnato da un leggero vento marino proveniente dal Sinis, lasciando a chi ha cercato di accompagnarlo fino alla fine, il ricordo di una vita durata quasi un secolo. E sì, perché di un secolo si parla, e dico anche che la sua fortuna è stata quella di aver visto il mondo cambiare repentinamente giorno dopo giorno, e non lo faccio così da scaturire ammirazione nei confronti di un'anima concessa a Dio, ma perché quello che siamo ora, nel presente, in quello che viviamo sbattuti da una parte all'altra da tremendi paradossi lo dobbiamo a quel secolo là. Quello che Salvatore Bassu ha vissuto passo dopo passo dal 25 luglio del 1920.
Ah, gli anni venti. Quelli sì, signore e signori, che erano tempi da urlo (in tutti i sensi). Pensate che in quell'America appena uscita vincitrice dal primo conflitto mondiale quegli anni vennero chiamati: "I RUGGENTI ANNI VENTI". Ma bisogna dire anche che quel ruggito favoloso durò fin quando si perse in un eco silenzioso di un giovedì nero del 1929.

Quegli anni nell’estremo ovest passarono tra gangster che combattevano il proibizionismo, crescita sproporzionata dell'industria e soldi su soldi che uscivano dalle casse per andare a sfamare un Europa messa in ginocchio dalle nuove bombe intelligenti. Ma l'America, al tempo era veramente troppo lontana, persino per il decaduto impero tedesco che succhiava come un agnello il latte della sua mamma d'oltre oceano, mentre cercava di riprendersi da una poderosa rovina. Figuriamoci quanto potesse essere lontana per l'Italia, che imperterrita mandava i suoi figli a cercare fortuna oltre le colonne d'ercole a bordo delle peggiori bagnarole. Quindi, provate a immaginare cosa potesse essere l'America per la Sardegna, in quel 25 luglio di un anno che dava il via al ruggente decennio. Soprattutto in una conca di basalto che la leggenda e la storia identificano come un cratere spento da anni dimenticati. " Tra il Logudoro e l'Arborea, tra i sepolcri giganteschi delle più antiche stirpi, aperta all'austro-libeccio e al soffio dell'Africa" come disse il poeta vate. Una descrizione un po’ troppo approssimativa e frettolosa, D'Annunzio non me ne voglia, per descrivere bene ciò che nel suo canto raffigurò come il cratere nericcio del giovane Rudu. Io, avrei parlato di una valle piuttosto che di un residuo di epoche vulcaniche dimenticate. Una valle attraversata da piccole colline fertili dove la vite e l'olivo crescono robusti tra il fico e siepi di rovo spinoso. Avrei parlato della corona rocciosa posta da Dio a cingere un villaggio di laboriosi artigiani, agricoltori e allevatori. Dei castagneti cresciuti su pendii scoscesi, posti a seguire il flusso di rigogliosi torrenti che sfociano in cascate al confine con il Campidano. Avrei parlato delle macchie di mirto, ginepro e lentischio che si fanno strada tra le rocce prima di arrivare a perdersi nelle immense foreste di leccio, che imperterrite, si spingono fino ad arrivare alla punta più alta della corona, dove l'inverno tinge di bianco quella cresta impervia che delimita in maniera sottile il confine con il mare che giace a ridosso del versante occidentale. Dove l'occhio umano non riesce a non perdersi all'orizzonte, mentre i colori della sera tingono il cielo come una tela di un pittore divino. Lasciate che l'immaginazione vi colga per un attimo. Lasciate andare il vostro sguardo oltre le torri omeriche di Ilio fino ai Dardanelli. Se l'avete fatto allora forse siete riusciti ad avere una pallida idea di cosa potesse essere quel posto che ha visto nascere Salvatore in quegli anni gravidi dei mali peggiori che il mondo potesse immaginare.

Da quello che avete potuto capire, io non sono D'Annunzio, ma nonostante ciò spero di essere stato esaustivo in questa piccola parentesi a tratti malinconica. Dove eravamo rimasti? Ah sì, gli anni venti, che periodo! Persino per l'Italia, considerando che i fasci da combattimento partititi da Milano da un anno, erano già quasi pronti a prendere d'assedio il sacro regno dei Savoia. E chi si aspettava che da là a due anni Roma sarebbe stata piegata da una marcia di folli in un giorno di ottobre senza senso, e che il parlamento sarebbe caduto con troppa semplicità? Invece nel resto del mondo che succede? Francia e Inghilterra si godono la loro finta pace, meritata per aver ammazzato i tedeschi nel Verdun, mentre più a oriente, il disfacimento dell’impero Austro-Ungarico dà vita a nuove terre che vedono nascere a loro indipendenza in un periodo troppo traballante per stare al sicuro. Ah in oltre, un giovane di origini austriache è alle prese con un suo libro che desterà un discreto successo, mi sembra che il titolo sia (traduco in italiano) "La mia battaglia".

E in quella che fu per Omero l’isola dei Feaci, cosa succedeva nel mentre che Salvatore Bassu veniva al mondo nella stanza da letto dei suoi genitori?

Anche là, nonostante la vita procedesse molto più a rilento rispetto al resto del mondo, un fermento generale caratterizzava gli animi ancora accesi di chi la guerra in trincea l’aveva vissuta in prima persona, e quelli che si erano macchiati di sangue e morte sulle rocce del Carso erano veramente tanti, tanti come quelli che mai tornarono, per perdere la pazzia del mondo tra le rocce di un’isola dispersa nel mediterraneo.

Fu proprio l’amore per quest’isola, la presa di coscienza di sé dopo un lungo conflitto, che fece del fuoco che bruciava sotto cenere, una fiamma dirompente che finalmente diede voce agli ideali di intellettuali e politici dando alla luce così un partito politico solo ed esclusivamente sardo.

Ma Salvatore non poteva ancora sapere che cosa volessero dire queste cose. Lui che da qualche anno continuava a crescere indisturbato, mentre la sua pelle e la sua schiena si abbrustolivano sotto il sole cocente nei campi a sud. Quando ancora con il proprio padre, si usciva di casa prima che facesse mattino, e si tornava seduti sul proprio carro quando ormai la sera aveva già stuprato il sole a occidente.

Erano tempi quelli per Salvatore…


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