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Rotta sbagliata sulla “Vittor Pisani” - 5

  • Scritto da Eliogabalo

Il quinto episodio di un racconto inedito di Eliogabalo pubblicato a puntate su IteNovas.com

La lettera diceva fondamentalmente che tutti quelli in grado di brandire un fucile, avrebbero dovuto abbandonare ogni altro affare e partire per prepararsi a essere gli eroi di cui la loro patria aveva bisogno.

Eh sì, l’Italia al tempo aveva veramente bisogno di eroi che non la facessero sfigurare davanti alla sua fedele alleata che da un anno, senza che nessuno potesse fare niente, aveva invaso metà Europa sottomettendola al suo folle dominio.
Dunque mentre Francia e Paesi Bassi si preparavano a cadere dopo la guerra lampo crucca portata avanti con successo, il regno d’Italia preparava meticolosamente i suoi soldati per la “campagna delle Alpi Occidentali”. Un attacco che avrebbe dovuto mettere in ginocchio le democrazie dell'ovest che” troppo spesso avevano insidiato l’esistenza del popolo italiano”, a detta di quel nostro grande condottiero convinto di essere della stessa stoffa di Napoleone Bonaparte. Beh per quanto riguarda la stazza come dargli torto mentre per tutto il resto, nutro qualche dubbio sull’attendibilità della somiglianza.

Insomma morale della favola, per capire come iniziò la guerra degli italiani, possiamo dire che appena cinque giorni dopo la dichiarazione di guerra, quelle democrazie occidentali così ostiche nei nostri confronti, bombardarono il porto di Genova mettendo in crisi un equilibrio già precario di un Italia che rischiò di doversi fermare ancora prima che il meglio iniziasse. Ciò che venne subito dopo, ovvero la vera e propria “campagna delle Alpi Occidentali”, fece capire al mondo intero che l’alleata dell’intraprendente non più ragazzo ma uomo di origini austriache, non faceva per niente paura. Questa “ campagna” vide protagonisti una massa di sbandati che attaccarono una Francia ormai già messa in ginocchio da quelli che la guerra l’avevano preparata veramente, e il confine tra fallimento e riuscita di questa rappresaglia fu veramente sottile. Se non siamo riusciti a far tremare di paura i nostri nemici, di certo siamo riusciti a creare un sentimento di idiosincrasia generale nei nostri confronti. In definitiva si può dire che il totale tracollo dell’Italia non è arrivato d’improvviso. Diciamo pure che avvisaglie del clamoroso fallimento di questa nuova, dinamica e bellicosa patria si videro già dal principio, nonostante ci fu qualcuno che provò a far presente che il potente” transatlantico Italia” imbarcava acqua da tutte le parti e che era necessario trovare un rimedio il prima possibile. Ma si sa come sono fatti i grandi irreprensibili comandanti, non possono tollerare nessuna forma di disfattismo, quindi chiunque avesse messo in dubbio il suo operato, almeno per poter salvare la vita di qualche innocente, si vide d’un tratto negato il diritto di vivere a oltranza. Un patibolo, un cappio, una cella simile all’anticamera dell’inferno oppure qualche sicario ben pagato, potevano essere i rimedi migliori contro l'oppositite, la malattia degli oppositori.
Il 1940 fu l’anno in cui quell’ex dissidente socialista riuscì a farsi voler bene non solo in Italia ma anche all’estero. Quando si dice saperci fare eh!!

Ma mettiamo da parte per un attimo le brillanti mancanze del nostro grande incapace capitano e lanciamoci in un breve focus di quello che fu  l’incipit di quegli anni funesti in quell’isola che di italiano aveva ben poco.
Quella terra si preparava a essere teatro di pesanti bombardamenti dei nemici dell’Italia, e nel frattempo si preparava ad affrontare anni di pesante indigenza, poiché le uniche risorse che potevano essere d’aiuto all’economia locale vennero abbigliate con divisa ed elmo e mandate a combattere oltre confine, in posti che non si visitavano nemmeno nei sogni. Qualcuno iniziò a capire cosa stesse effettivamente succedendo e di quanto, volente o nolente, tutti fossero coinvolti in quel grande teatro infernale. Qualcun altro invece aveva capito tutto già da tempo, ma purtroppo moriva in una cella mentre il suo sogno di libertà si faceva strada sulle righe di quaderni dal carcere.
E Salvatore Bassu? Salvatore quando capì che il mondo fuori dal suo villaggio non poteva fare a meno di lui, non si scompose, al contrario mise le sue poche cose in una sacca di pelle e partì, dove non lo sapeva neanche lui.
Quella lettera che di punto in bianco arrivò come un fulmine a ciel sereno strinse in una morsa non il cuore di Salvatore, ma quello di chi gli voleva bene veramente, come i genitori, i fratelli e la sua giovane fidanzata.
I genitori videro andare via il loro figlio primogenito su un carro insieme ad altri compaesani, mentre torrenti impetuosi di lacrime solcavano le loro guance arrossate dal sole.

Sua madre si perse in un pianto degno di Egeo in un carmen di Catullo, quando vide l’imbarcazione del figlio Teseo entrare in porto con le vele nere. Si sa, le donne si lasciano andare più degli uomini al pianto ininterrotto.
Suo padre invece il giorno della partenza per l’addestramento lo salutò come pensava fosse giusto fare, ovvero con un tacito gesto del capo e una stretta di mano eloquente. Una maniera che riteneva fosse consona per uomini come loro. Ma la notte, quando la moglie si perdeva in mille sospiri pensando al suo giovane in mare verso il continente, lui non riusciva a fermare le lacrime, non tanto perché non avrebbe avuto più un valido aiuto in mezzo ai campi, ma perché aveva nostalgia di quell’amico che era suo figlio.
Si sa, gli uomini hanno bisogno di sentirsi tali mascherando ogni emozione dietro sguardi glaciali che sembrano voler dire al mondo che la paura e altri sentimenti non sono di casa tra di loro. Si travestono da ciò che l’immaginario collettivo richiede, lasciando le proprie debolezze al calar della sera, quando nessuno può vederli. E si sa, solo una donna può placare il dolore che lacera l’animo traballante di un uomo, insegnandogli come somatizzarlo e farlo privato in rigoroso silenzio.

E Vittoria? Lei, ve l’ho già detto, era donna d’altri tempi già da prima di compiere 15 anni e un modo discreto per abbandonarsi al dolore di un possibile addio con l’uomo della sua vita l’avrebbe trovato di certo. E così fece.
Dopo anni passati a crescere in simultanea con il suo amato, poco prima di vederlo andare via per combattere la guerra degli italiani, si fece giurare, in una notte intrisa di passione e malinconia, che mai lui avrebbe dovuto rendere il suo corpo concime in terre straniere. Strappò dalle labbra di Salvatore la promessa che sarebbe tornato sano e salvo, e il giovane uomo, in quell’istante, provò per la prima volta la paura di deludere le aspettative di una persona che amava con tutto sé stesso.

Glielo promise con voce tremolante e occhi bagnati, mentre respirava a pieni polmoni ogni sua essenza in modo da non perderla quando sarebbe stato lontano da casa. Forse fu per la condizione in cui si sentì catapultato di punto in bianco che lo rese per un istante consapevole di quanto l’esistenza umana sia veramente appesa a un filo o forse per la paura di non poter più sentire il profumo della pelle dell’amata e la delicatezza della sua carne, che Salvatore per la prima volta intravide la morte, la sua amica di una vita, camminare accanto a lui. Fu quella la prima volta che le disse di andare a passeggiare lontano, da un’altra parte, poiché da lui non avrebbe ottenuto niente per un unico motivo: aveva giurato alla sua innamorata che sarebbe tornato vivo e vegeto e dunque niente, nemmeno la morte in persona avrebbe potuto far venir meno un uomo della sua tempra a un patto così solenne.

Lei si impegnò per far sì che le sue parole potessero essere come vento che si infrange con le fitte fronde delle querce di quelle alture vulcaniche, vera patria di Salvatore, ma non ci riuscì, nemmeno quando un siluro inglese interruppe la rotta sbagliata sulla Vittor Pisani nel 1941.
Vittoria si concesse al suo dolore senza troppe sceneggiate, poiché per quanto potesse essere spaventata, dentro di sé conservava la consapevolezze che il suo uomo le aveva fatto una promessa, e tutto avrebbe potuto dire di Salvatore ma non che fosse un uomo che non rispettava la parola una volta data.

E fu così che Salvatore con la paura in corpo e un tipo di nostalgia nell’anima che solo i sardi sanno provare, partì senza troppe parole, senza troppi piagnistei, alla volta dell’ignoto. Alla volta di un mondo che al tempo portava avanti una corsa sfrenata verso la modernità e la tecnica. Proprio quando Martin Heidegger, in quella Germania nazista, sosteneva che quest’ultime avevano modificato l’uomo nella sua essenza rendendolo mera funzione. Mai nessuna affermazione sarebbe potuta essere più attuale per noi, figli debosciati della tecnica e del futuro. Purtroppo.

Quando la morte, stanca di inseguirlo, decise che stava per arrivare il momento di riposare dopo un secolo di peripezie, in un giorno d’autunno si sedette accanto a noi ad ascoltare quello che Salvatore aveva da dirci.
E così, seduti intorno al tavolo nella sua cucina ci disse:
“Io ho quasi 96 anni, e di cose ne ho viste tante, ma non posso……


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