IN Breve

Racconto | Tra le stelle del cielo e la spuma delle onde

  • Scritto da Luigi Citroni

Racconto inedito e completo da leggere il weekend sotto l'ombrellone o al fresco di un bosco, tutto per voi, i nostri lettori affezionati di IteNovas.com. Buona lettura!

Spesso prima di dormire, rimango immobile avvolta dalle coperte, afflitta dal dubbio se in fin dei conti sia riuscita a condurre una buona vita e se sia stata o meno una brava persona.
Di solito inconsciamente tendo a giustificare ogni mia scelta, ogni azione che ha potuto condizionare il mio trascorso, nel bene o nel male, ma il più delle volte a forza di pensare e ripensare, arrivo al punto in cui mi condanno per aver preso, alla fine della fiera, la decisone di partire.
Allora in quell’istante mi arrendo al passato, mi lascio andare a un sorriso malinconico e inevitabilmente mi perdo tra i ricordi e le stelle dimenticate delle notti nei cieli di casa mia.
Così chiudo gli occhi e ricordo ciò che posso.
Sono piccoli particolari incastrati tra loro come i pezzi di un puzzle, i quali assemblati formano ciò che mi ha visto diventare chi sono oggi.
Rammento immagini, colori, rumori soffusi, e chissà perché ricordo nitidamente persino gli alberi di mimosa di mio padre.
Tre grandi piante cresciute strette l’una accanto all’altra nel piccolo cortile sul retro di casa.
Ricordo il profumo intenso di mimosa, la liscia corteccia resinosa, e soprattutto le loro chiome dorate.
Quando penso al mio paese in effetti penso a me distesa al riparo dal sole sotto le loro foglie, e d’un tratto distinguo nuovamente gli aromi della mia terra.
Sento allora il vento fischiare tra le fitte foreste di leccio. Lo vedo scuotere le cime cariche di ghiande, e scolpire in maniera indissolubile i volti dei pastori nascosti tra le rocce di montagna.
Avverto poi l’odore della pioggia invadere nuovamente la valle, e la sento picchiare sui lucernai e scrosciare lungo le grondaie e i canali di rame.
Infine vedo la mia dimora e le sue pietre disordinate accavallate l’una sull’altra. Vedo il muschio adagiato tra i cantoni, e piccoli fiori coraggiosi crescere lungo l’intera parete rocciosa. Infine sento il suo profumo.
Riemergono dunque dall’oblio i volti delle mie sorelle e di mio fratello. Di mio padre e di mia madre. E allora d’improvviso chiudo gli occhi con più vigore e provo così a tener stretto il ricordo della mia famiglia.
Purtroppo non resisto mai a lungo nei panni di giovane sognatrice che conta le stelle, difatti in un batti baleno l’orchestra cessa di suonare la sinfonia dei miei ricordi, e così ritorno al mondo che conosco ora, alla veneranda età di settantasei anni, e con sconforto mi riadeguo al trambusto cittadino, al traffico, e riprendo a respirare l’aria intrisa di smog.
Vivo a Milano ormai da cinquant’anni, ma il giaciglio che mi ha visto nascere si trova ben al di là della Padania e dei suoi fitti banchi di nebbia. Precisamente risiede a Santu Lussurgiu, in Sardegna, in un piccolo grumo di case abbandonate in mezzo a una vegetazione intonsa, ai piedi di basaltiche terrazze rocciose. Un posto in cui nelle sere d’estate è possibile ammirare le fate volare oltre un imponente muro di pietra, e perdersi infine dove il sole si concede alla notte.

Casa mia si trova accomodata dentro una pozza vulcanica, tra impetuosi ruscelli incanalati nel lungo valle del Montiferru, e le cenge a monte coperte da spuntoni muschiosi, dove poter ormeggiare la propria stanchezza al riparo dal verde.
Sono nata e cresciuta tra i falchi silenziosi e la selvaggina quatta all’ombra del sottobosco; tra i cinghiali e volpi ladre di pollame; tra le pietre asciutte dei muretti a secco e i letti d’edera arancione fiore della neve, avvizzita in mezzo ai campi polverosi.

Il mio nome è Maria Satta e ogni notte sogno di tornare a casa, carica di bagagli e con la gioventù ancora stretta tra le mani.
Sono la prima di quattro figli, tre donne e un solo uomo, venuta al mondo il nove marzo del quarantadue a Santu Lussurgiu, tra le braccia di un’ostetrica nella camera dei miei genitori.
Sono figlia di una terra dalla memoria millenaria, di uomini bassi e tarchiati e di donne dai fianchi robusti.
Allo stesso modo lo sono del latte appena munto e della lana. Della ricchezza coperta dal fango e del profumo di granturco. Del sughero e del miele. Ma per lo più sono figlia di un padre amorevole e una madre testarda.
Mio padre, Costantino Satta, in tutta la sua vita non fu altro se non ciò che la povertà di fine Ottocento gli concesse di essere.
Era un pastore senza pretese e senza ricchezze. Un piccolo possidente di terre arse e pascoli brulli, di un uliveto e di una vigna adagiata su una piana argillosa.
Un uomo dalle umili origini, minuto, alto quanto un fusto di barbatella dalla schiena curva, con mani arcuate dall’artrite e la pelle raggrinzita, bruciata dal sole. Ricordo i suoi abiti di velluto nero, ruvidi come l’orbace e dal profumo di fiori di campo e cenere. Rammento i suoi cambales di cuoio, puzzolenti e impregnati di sudore e peli di cavallo. Ma forse al di là di tutto ricordo per lo più che lo amavo, e lui amava me.
Mia madre invece, Anna Maria Loi, era una donna come tante in un mondo fatto di soli uomini. La padrona di quattro gelide mura di pietra, eternamente rinchiusa ad allevare giovani di valore e donne ligie al dovere. La ricordo ora distintamente vestita di nero, con copricapo di seta raffinata e un fazzoletto di lino ricamato, tenuto stretto a proteggere il muso. Se chiudo gli occhi riesco persino a vederla camminare sul selciato, di ritorno dalla chiesa insieme alle sue comari.
Di lei ricordo la severità, il profumo di boccioli di menta racchiusi nelle tasche della sua gonna di fustagno, gli occhi verde smeraldo e il suo sorriso nascosto troppe volte da smorfie di rabbia.
Era una donna rigida, autorità, e credo che il suo essere intransigente fino a tal punto non fosse altro se non una sorta di meccanismo di difesa.
Dopo tutto bisognava pur sopravvivere e suscitare rispetto in un mondo maschilista.
Per questo motivo ricordo di averla rispettata, temuta, e amata all’eccesso fino all’ultimo, poco prima che io prendessi il volo per l’Italia e lei per il Regno dei Cieli.
Eravamo donne diverse, e per questo motivo ci ritrovammo ad essere in contrasto molto più spesso di quanto desiderassi. A differenza sua, non ero destinata a diventare una matrona dal pugno di ferro, ma in un mondo dominato dagli uomini sarei dovuta essere uomo quanto loro, e non una semplice signorina.
A sette anni difatti, dopo aver finito di frequentare le scuole elementari, dovetti iniziare da subito il mio apprendistato da campagnola, mi spogliai allora di ogni delicatezza, di ogni reverenza signorile, e indossai pesanti pantaloni e scarpe di sughero, pronta per il lavoro.
Inutile dire che per mia madre fu uno scandalo. Una vergogna inaudita.
Ma nonostante il suo disappunto, babbo aveva bisogno di aiuto in mezzo ai campi, a prescindere dal sesso.
Ciò nonostante devo ammettere che se la povertà non fosse stata un rischio incombente, egli avrebbe ridotto l’intero universo a un piccolo fascio di luce, pur di non vedermi con le mani sporche di terra. Ma nel nostro piccolo e povero mondo cosa mai avrebbe potuto fare un uomo come lui, se non considerarmi il figlio che il destino non gli diede?
Ero una bestiolina delicata non un ragazzo pronto per diventare uomo. A sette anni ero ancora una creatura ingenua e indifesa, una piccola gemma adagiata su un batuffolo di bambagia, pronta a sbocciare.  

La gente al giorno d’oggi non può capire il significato nascosto dietro queste parole.
I miei figli in primis non possono capire, e naturalmente non li biasimo.
Quando provavo a raccontare loro la mia infanzia leggevo nei volti l’ignoranza di chi non ha conosciuto la povertà o la necessità di sacrificarsi, e troppo spesso coglievo perfino il disinteresse di chi non desidera conoscere parte delle proprie origini.
Può sembrare un atteggiamento disdicevole, ma con il tempo ci si abitua.
Con il tempo ci si adegua al vivere frenetico della città e ai bisogni di chi ti circonda. In un modo o nell’altro si diventa capaci di poter rispondere alle esigenze della vita metropolitana, e inevitabilmente ci si dimentica della terra da cui si decide di estirpare le radici.
Naturalmente serviva ben altro per farmi desistere dal raccontare, soprattutto nei giorni che seguivano le notti in cui sognavo le mie stelle. Allora appena avevo occasione provavo a esporre ciò che la mia stanchezza mi lasciava ricordare. Raccontavo loro delle mattine d’inverno quando ai soffi di Tramontana si usciva di casa già sfiancati dal freddo; del nostro mulo sellato con un vecchio basto di legno e del suo rauco ragliare; delle pesanti bisacce irrigidite dalla brina, cariche dello stretto indispensabile per sopportare fame e freddo. E infine dei lunghi viaggi verso le nostre campagne, sotto cieli tersi anch’essi congelati dalla rigidità dell’inverno, o sotto il sole cocente di tanto in tanto nascosto da nubi torrenziali.
Marce a passo lento sempre e comunque, tra i silenzi di mio padre schiavo della sua stanchezza atavica, e la mia curiosità saziata per lo più dal vociferare della natura mossa da venti gentili.
Parlavo spinta da sussulti, da emozioni ingovernabili. Descrivevo il lavoro in vigna e di quanto potesse essere delicato e pesante allo stesso tempo. Delle transumanze con il bestiame e dei lunghi tragitti attraversando sentieri scoscesi, tra fitti boschi e pascoli protetti dal biancospino, fino ad arrivare agli altopiani a nord del Sinis, tra rocce acuminate, trapuntate da muschi e licheni.
E poi raccontavo loro del mare.
Quando oltrepassato il basalto si andava giù per le vie tracciate dalle carovane dei mercanti. Lungo vicoli stretti tra la terra umida e rampicanti di ogni tipo, fino a sentire dulcis in fundo il profumo di iodio.
Niente era più bello del mare. Era bello quando si lasciava il bestiame tre l’erba fresca di terreni concessi da proprietari indulgenti, e ci si congedava per qualche ora tra la sabbia sottile e il tepore del mare costretto nella baia di Oristano.
Ah…se ci ripenso!
Talvolta i miei ragazzi ascoltavano queste parole con trasporto, mentre in altre occasioni mi lasciavano ricordare ad alta voce, come se mi volessero concedere uno dei tanti piaceri che un figlio deve alla propria madre.
E così, facendo finta di niente, proseguivo con le mie disquisizioni parlando di me e mio padre. Di un vecchio rudere e della sua piccola principessa. Della sua Mariedda.
Di me e lui quando si mungeva il bestiame, o quando si portava il latte alla cooperativa dei pastori. Del momento in cui si sganciavano sas lamas dal basto del mulo e si portavano dentro una baracca fatiscente.
Quei dannati recipienti in lamiera che pesavano un quintale l’uno. E io da piccola ragazzina che ero, li trascinavo a fatica, mentre gli altri pastori mi guardavano commiserandomi, senza allungare una mano per porgere aiuto.
Raccontavo loro proprio tutto ciò che mia madre non poteva sopportare.
La mia condizione tanto le dava rabbia che quando tornavo a casa, immancabilmente, la trovavo a rimuginare tra se sé in preda alla sua ira funesta. Pareva essere una bomba pronta a esplodere, ma rimase sempre una minaccia mai tramutata in realtà. Lei sapeva bene quale fosse la stanchezza provata dalle mie giovani membra, sapeva ogni cosa e dato che non poteva scaricare la sua frustrazione per qualcosa di inevitabile, lasciava che io facessi scivolare via le fatiche del giorno dentro un catino d’acqua bollente.  
Quello era il mio momento.
Allora la pace mi assaliva e un piacere indescrivibile prendeva possesso di me immersa nell’acqua insaponata.
Ricordo che dopo qualche minuto mamma entrava nella stanza da bagno, si faceva largo silenziosa tra il vapore e dopo essersi adagiata sul pavimento accanto a me cantava una delle sue canzoni mentre mi accarezzava i capelli bagnati.
Anninia puppu bellu, lassa pianghere a mie. Ruttu sese in mesu e su nie, ruttu sese in sa rena.

Il suo viso si divincolava da ogni tensione e solo in quell’istante si mostrava a me con un volto di madre afflitta per il destino del suo piccolo gioiello.
Era un modo come un altro per darmi forza. Per concedermi un po’ del suo coraggio.

Purtroppo per me non ho più la forza di ricordare, son troppo vecchia per rievocare lucidamente i fatti trascorsi così tanto tempo fa.
Ricordo solo che quel tempo passò senza che me ne accorgessi. Le stagioni si avvicendarono una dopo l’altra senza troppi indugi, e così passarono gli inverni, le estati, gli autunni e le primavere. La pioggia cadde sui pulpiti delle torri nuragiche, e la neve si sciolse liberando profondi cunicoli di titaniche stirpi, rimpinguando i pozzi sacri dove il sole poté risplendere di luce nuova a ogni solstizio d’estate.
Il tempo passò, e la mia vita si volse pian piano verso una repentina rivoluzione.
Iniziò a tredici anni.
Proprio quando mia madre decise di farmi frequentare le classi dell’avviamento.
Proprio quando cercò di farmi capire a modo suo che al di là della campagna, della servitù casalinga e dei sensi di colpa, esisteva ben altro. E io lo scoprii in men che non si dica.
Capii che al di là del mio villaggio il mondo esisteva per davvero. Non erano più solo voci di corridoio, ma certezze. L’Africa, l’Asia e perfino l’Australia esistevano! Esistevano i canguri, i leoni e addirittura tribù vestite con solo un mucchio di sterpaglie, dalla pelle più nera del carbone.
Inoltre per la prima volta venni a conoscenza di un mondo parallelo delineato dall’inchiostro. Conobbi avventure e intrepidi condottieri. Dame, cavalieri, mostri mitologici e eroi figli di divinità.
Scoprii così che esisteva l’amor cortese e la passione. Quella che ridusse intere città a un pugno di cenere per il volere di una principessa. E tutto questo era gelosamente conservato tra le pagine di vecchi volumi impolverati.
Erano come piccoli tesori protetti all’interno di uno scrigno che solo gli intrepidi avrebbero potuto aprire.
E io lo feci.
E fu così che il mio universo cambiò improvvisamente.
Il nostro mulo non fu più solo una semplice bestia da soma ma un nobile destriero. Mio padre avvolto nelle sue mantelle di pelle di vitello non fu più un piccolo uomo di campagna, ma un guerriero dall’incredibile potenza, e mia madre non poté esser altro se non la nostra regina.
La mia mente prese il volo. Si perse oltre l’orizzonte, planando sopra sterminati campi di grano e cime innevate coperte da una tenue foschia.
Continuavo sì ad andare in campagna, a faticare, a farmi prendere per il naso dai grandi somari che erano gli uomini del mio tempo, ma ciò nonostante sognavo, e navigavo per mari fino ad approdare in terre sconosciute.
Nessuno poteva impedirmelo.
Di notte la stanchezza si faceva sentire sempre meno poiché cedeva il passo alla curiosità, alla volontà di leggere e di sentirmi parte di una realtà del tutto antitetica alla vita che conducevo.
Leggevo di Tristano e Isotta, di Penelope e Ulisse e dell’Orlando innamorato.
Leggevo, leggevo e leggevo, tanto che iniziai pian piano a comprendere quale fosse il mio posto in questo mondo.
Mia madre in tutto ciò non poté far altro che gioire sommessamente. Vedeva in me una luce fino ad allora assopita sotto la pelle sporca di terra, e a modo sua alimentava il mio fuoco senza dar adito a scandali o discussioni.
Mio padre al contrario sembrava non aver la più pallida idea di cosa stesse succedendo. Non capiva che la sua piccola cresceva, anche se accettava di buon grado la mia solarità considerandola, ingenuamente, lo strascico di un’innocenza ormai messa alla porta.  
Credo che per lui io non sia mai cresciuta per davvero.

Mia figlia Anna Maria adorava questa storia. Amava ciò che furono i miei primi spasmi di emancipazione.
Amava i particolari. Anche quelli più sottili.
Racconto dopo racconto lei instancabile sorrideva e si emozionava insieme a me.
Ricordo che una delle sue storie preferite era quella del mio esordio al di fuori di Santu Lussurgiu.
Quando dopo aver rischiato, dopo essermi messa in gioco districandomi tra lavoro, sacrifici e studio, nel settembre del cinquantotto riuscii a iscrivermi al primo anno di scuola magistrale.
Avevo sedici anni eppure sapevo già cosa avrei voluto e dovuto prendere dal mondo circostante. La realtà intorno a me era il mare che avrei dovuto attraversare e al tempo non vedevo l’ora di farlo. Avevo una piccola ma resistente barca costruita con gli sforzi sovraumani dei miei genitori. Un piccolo vascello con il quale in un bel giorno di bonaccia, dopo aver riposto tutte le mie speranze in una grande valigia di pelle, partii alla volta di Oristano.

Al tempo quel paese lontano solo trenta chilometri dal mio non era tanto diverso da Santu Lussurgiu. Aveva solo qualche piccolo richiamo di una tiepida modernità che pian piano si faceva spazio tra i contadini scalzi.
In quel periodo ricordo che il mondo si trasformava ogni giorno di più. La guerra era finita già da qualche anno e l’Italia iniziava a crogiolarsi sulle ricchezze elargite dal boom economico appena agli albori. In un modo o nell’altro anche la Sardegna iniziava ad adattarsi al processo di modernizzazione, perciò Oristano poteva essere il teatro ideale dove osservare indigenza tradizionale e modernità giocare a braccio di ferro sulle rive del Tirso, tra i canneti e le risaie del Campidano.

Io ci arrivai in un pomeriggio afoso a bordo di una vecchia corriera di inizi Novecento.
Dopo un viaggio interminabile si fermò qualche chilometro dopo il cartello di benvenuto, in una piazza circondata da palme e piccole case di pietra levigata, a poche centinaia di metri dal convitto di suore Giuseppine dove sarei dovuta andare a vivere per quattro anni.
Come scesi dal pullman, per la prima volta mi son sentita libera, donna e senza alcun tipo di vincolo. Proprio come voleva mia madre.
Ricordo che quegli anni furono carichi di soddisfazioni e di sofferenze. Di lacrime e di nostalgia. Soprattutto il primo periodo.
Che dire la casa è pur sempre la casa anche se a pochi chilometri di distanza.
Ciò nonostante capii da subito di dover dare il massimo. Dovevo portare risultati, poiché non farlo sarebbe stato come sputare sul volto sudato di chi sacrificò la propria vita per darmi un futuro.
Non fu semplice lo ammetto: la scuola era dura e le regole del convitto altrettanto. Lo studio era pesante ma scaturiva in me un piacere difficile da descrivere. In fin dei conti era quello che volevo.
Per di più conobbi tanta gente.
Feci amicizia con ragazze provenienti da ogni parte della provincia di Oristano, e inoltre trovai l’amore. Il mio primo e unico amore.
Il suo nome era Fulvio Marini.

Lo notai per la prima volta durante il mio terzo anno di liceo. Io avevo appena diciannove anni e lui ventinove.
Un bel giorno lo vidi entrare in classe con una borsa di pelle nera e il suo passo deciso, e da allora non uscì mai più dalla mia vita.
Era l’uomo più bello che avessi mai visto: alto, snello e occhi scuri come i suoi capelli.
Tanto bello da lasciarmi estasiata e da permettere alla mia gioia e sofferenza di ruotare solo ed esclusivamente intorno alla sua esistenza.
 
Per molto tempo egli fu soltanto un pensiero proibito da tenere rinchiuso nelle segrete della mia mente. Lui sarebbe dovuto rimanere in quella scuola solo per pochi mesi, poi avrebbe preso una nave e fatto ritorno a Milano, a casa sua, dove lo attendeva un lavoro ben più redditizio.
Questo rese il mio umore costantemente altalenante.
Consideravo una fortuna il fatto che di lì a poco avrebbe abbandonato per sempre la terra che condividevamo, ma allo stesso tempo mi lacerava il pensiero di non poterlo più rivedere.
Per la prima volta patii sofferenze mai provate.
Fu un fermentare di emozioni incontrollabili che per di più portarono non pochi conflitti con i miei familiari, i quali non capivano la natura della mia irrequietezza e pretendevano le solite cose: impegno, ordine e diligenza. Ovvero tutto ciò che ormai per me aveva perso di significato.
Allora esisteva solo la fiaba romantica sulla quale riporre ogni mio sentimento.
C’era principalmente il silenzio estenuante di un amore che non poteva essere dichiarato, e il dolore patito per tale infausto destino.
Ma il mio penare per dolci affari, cessò d’incanto appena qualche mese prima della pausa estiva, quando una mano mi sfiorò la spalla e un sorriso folgorante, per un attimo, mandò in pausa ogni più piccola componente del mio giovane corpo.
Fulvio mi toccò con leggerezza, come se avesse paura di ferire le mie fragili ali di farfalla. Mi avvicinò poco lontano dalla scuola, e con qualche parola imbarazzata e fare guardingo, mi offrì il suo braccio per una passeggiata lungo gli sterrati oristanesi sulle rive del Tirso.
Camminammo per tutta la sera. Fino al crepuscolo. Fino al momento in cui egli confessò di volermi rivedere ancora e ancora.
E io da stupida ragazzina innamorata di quello che già d’allora era un uomo con tanta esperienza alle spalle, mi sciolsi davanti a siffatta dolcezza, e non esitai a dire sì a tutto ciò che mi propose.
Furono tante le volte in cui mi fece montare sulla sua Cinquecento rosso fiammante per portarmi al mare, o alla foce, o a passeggiare tra i fenicotteri lungo le saline asciutte. Tutto mentre la mia ingenuità convertiva una semplice infatuazione adolescenziale in amore intenso, puro e irriducibile.
E fu proprio a causa della mia innocenza ancora vivida che in una notte di Aprile, la luna con cortesia risplese sui nostri corpi nudi.
 
Fulvio sfiorò il mio viso coperto dall’oscurità della notte. Scese lentamente lungo la guancia fino a perdere il contatto con la pelle alla base del collo. Io intimorita osservai la sua mano allontanarsi e senza indugiare un solo istante la presi e la strinsi al mio petto.
Il cuore batteva forte incastrato tra i polmoni, mentre i suoi occhi solcavano la mia giovane carne che inconsciamente si abbandonava alla passione.
Tra mille sospiri, egli sussurrò parole dolci al vento che scuoteva le fronde di grandi palme fuori dal villaggio. Io ascoltai la sua voce in rigoroso silenzio, persa tra soffici capelli e il loro profumo, e spinta da richiami ancestrali mi avvicinai ancor di più al suo corpo, accarezzando i muscoli stanchi della sua schiena. Lui lasciò che il piacere prendesse il sopravvento, e sfilando lentamente lungo la delicata e sinuosa compostezza del mio corpo, non mi diede altra scelta se non quella di concedermi a lui senza riserva, trascinandomi così nella danza passionale di chi suggella i propri sentimenti al chiaro di luna.

Se la vita fosse stata solo un esperimento, un’entità impersonale da modificare e manipolare a nostro piacimento, tutto sarebbe stato molto più semplice.
Sarebbe stato lecito giocare con le nostre emozioni, così come sfiorare i limiti che ci sono stati concessi da chi ci ha offerto in dono l’esistenza.
Avremmo avuto coscienza e consapevolezza di ciò che significa sbagliare o assumersi le responsabilità dei nostri errori, senza però rimetterci in prima persona.
Al primo sbaglio saremmo potuti tornare indietro, giustificandoci col mondo con un semplice “non lo faccio più. Lo prometto”, per poi prendere nuovamente il via e andare ad assaporare nuovi errori da poter nascondere come polvere sotto il tappeto.
Ma la realtà purtroppo è un'altra cosa.
Il dolore esiste e si sente, e il piacere spesso ne è la causa.
Se avessi potuto parlare alla Maria di tanti anni fa, sedotta su di un prato all’ombra di miliardi di fuochi, le avrei detto: ti prego fermati. So che pensi sia giusto quello che stai per fare, ma fermati un attimo a riflettere. È troppo presto e tu sei troppo giovane.
Ma sappiamo tutti che non è possibile, e dunque come un torbido caldo malato promette pioggia, il temporale arrivò puntuale poco dopo le mie splendide giornate di sole.

La scuola in quel giugno si congedò all’estate come la mia verginità a un uomo conosciuto qualche mese prima, e mentre le cicale giocavano a nascondino tra le balle di fieno, la vita pian piano trovava sempre più spazio nel mio grembo.
Tornai così tra le mie montagne in un luglio secco e incenerito dal fuoco.
Rimasi stupita da quanto trovai piccolo ogni aspetto della mia vecchia esistenza. Le persone, gli oggetti, gli alberi, ogni cosa sembrava essere in scala rispetto allo spessore della vita che si conduceva.
Scesi dalla corriera nel primo pomeriggio e passeggiai lungo l’acciottolato libera da ogni bagaglio, ma con le mani giunte a sostenere un ventre ormai rigonfio.
Arrivai a casa stremata e sudata, spinsi il portone e come al solito si aprì cigolando sonoramente.
Vidi subito mia madre immobile in attesa di sua figlia.
Ancora ricordo quanto la vidi invecchiata.
Il viso stanco e carico di rughe mi diede la conferma che il tempo era passato persino per lei.
Senza esitare mi venne incontro notando da subito qualcosa di diverso. Non trovò bagagli adagiati sull’uscio, ma solo giovani mani impegnate a trattenere e accarezzare quello che sarebbe stato suo nipote.

Di tutto ciò che ho provato a dimenticare nel corso della mia vita, la sua espressione in quell’istante è stata forse la cosa che avrei tanto voluto non rivedere nelle mie reminiscenze.

Ricordo che eravamo poco distanti l’una dall’altra, io ferma a sostenere il robusto portone di quercia e lei a metà tempo lungo il corridoio d’ingresso con la schiena poggiata al muro.
Le sue braccia ormai gonfie e doloranti erano distese inermi lungo i fianchi; le ginocchia piegate, leggermente sostenute dalla ruvida fibra della sua gonna, tremavano, e il suo volto solcato da una tristezza difficile da descrivere, sembrava chiedesse a Dio la forza di poter resistere ancora per un altro po’.
 “Che cosa hai fatto” disse con voce tremante.
In quell’istante io abbandonai la mia posizione e mi avvicinai cercando un contatto fisico per rassicurarla, ma lei scoppiò in lacrime e si scrollò di dosso le mani appena poggiate sulla sua maglia di lino.
“Che cosa hai fatto” disse singhiozzando “Perché…perché l’hai fatto” continuò.
 Fu allora che la gonna non resse il peso della sua angoscia, e liberò così due fragili ginocchia che in un millesimo di secondo si incollarono alle fredde mattonelle di granito.

Dopo di ché le lacrime sgorgarono rigogliose come cascate allo sciogliersi della neve in primavera, lasciando il tempo solo per qualche singhiozzo strozzato e lamenti di dolore.

Non ho mai avuto il coraggio di raccontare questa storia a nessuno dei miei figli.
È stato più forte di me. Per tutto questo tempo ho pensato non fosse giusto raccontare di così tanta tristezza racchiusa in pochi e semplici gesti di sconforto.
Non lo meritavano, e in qualche modo nemmeno io.
Per questo motivo ho provato a non ricordare le sue lacrime, i suoi occhi vacui e la sua delusione.
Ma ora che sto morendo penso sia giusto farlo. Per l’ultima volta.

La mia afflizione si tradusse subito in pianto, e d’istinto mi fiondai su di lei per stringerla in un abbraccio come mai feci prima di allora.
Lei ricambiò il gesto come supplica affinché cambiassi in qualche modo ciò che avevo fatto, ma come sarebbe mai stato possibile?
Ah…se avessi potuto. Se avessi potuto darle anche solo un ultimo piacere, ora come ora, l’avrei fatto. Ma quello che avevo in grembo era pur sempre mio figlio, e allora pensavo che avrebbe capito, magari col tempo.
Avrei presentato loro Fulvio, avrebbero visto l’uomo che vedevo io e tutto si sarebbe risolto. Ma anche questo come sarebbe mai stato possibile?
Come è noto a tutti, più si cerca un’alternativa alla realtà e più essa si presenta nuda e cruda per quella che è. E così fu anche per me.

In quei giorni ricordo un continuo susseguirsi di liti e richieste di spiegazioni. Io per loro ero così giovane, avrei potuto aver tutto dalla vita, perché chiudere i conti con il mondo così presto?
Era tutto tremendamente sbagliato.

Allo stesso tempo avevo bisogno di loro.

Così mio padre una notte dimostrò tutto il suo amore con una semplice frase. Mi chiese: “tu sei felice?” io risposi di sì ma che non sarei mai potuta esserlo a pieno senza la loro approvazione. Allora lui mi disse che se quello che mi serviva per essere felice era il suo benestare, allora cosa aspettavo a esserlo? Disse che il suo cuore come la sua anima appartenevano a me dal giorno in cui venni al mondo. E per mia madre era lo stesso. “Passerà Marié…passerà” disse accarezzandomi dolcemente.
I giorni passarono, e le settimane scivolarono sulla nostra pelle come fiumi in piena nei loro letti calcarei, mentre mio figlio cresceva al riparo dal mondo.
Fulvio mi scrisse ogni settimana.
Lui ormai a Milano pensava alla Sardegna come un adulto ricorda i suoi giorni da infante. Ancora non sapeva di aver un erede in via di sviluppo, ma alla fine del quinto mese di gravidanza dovetti confidargli ciò che fu il frutto di una notte di passione.
Intanto nel paese la gente iniziò a chiacchierare. Si parlava di un figlio fuori dal matrimonio come se fosse il lascia passare per l’inferno. Uno scandalo. Dov’era il padre? Chissà cosa avevo combinato a Oristano…le ragazzine di una certa età devono rimanere a casa, non a gironzolare in giro per i paesi a farsi mettere incinta dal primo che capita.
Malignità di ogni tipo abbondavano sulle bocche di tutti, e con tutto questo vociferare mia madre naturalmente non poté stare in silenzio, diceva infatti che il matrimonio era stato celebrato. Una cosa intima e un invito frugale. Niente di ché.
Sembrava così strano vederla in difficoltà dinnanzi all’indisponenza di pettegole bigotte. Lei che affrontò a muso duro ogni avversità della vita, in quel frangente sembrò essere una tigre che pian piano si ritira nel suo covo a leccarsi le ferite.
Ma del resto sono sicura che non mentisse sul matrimonio per garantirsi un posto in paradiso davanti a loro, ma al contrario che lo facesse per me, poiché sua figlia nonostante gli errori commessi, non meritava le cattiverie vomitate da bocche sdentate e aliti aromatizzati da petali di rosa di Santa Lucia.

Nel mentre un altro mese passò senza ricevere risposte da Fulvio.
“Gli uomini non servono a niente figlia mia” diceva mia mamma “se le cose stanno così, lo faremo insieme io e te”.
Con la rabbia stretta tra i denti ancora una volta avrebbe sopportato l’ennesima fatica scaricata sulla sua pelle.
Al diavolo il destino! pensavamo. Io e lei eravamo più forti di tutte e tutti.
E fu così che iniziammo a progettare la nostra vita insieme, proprio come tempo prima lei e mio padre fecero per me.
Preparammo una cameretta accanto a quella che un tempo fu il mio piccolo giaciglio. Faticammo giorno e notte e lei instancabile, oltre a insegnarmi come rendere il mio fisico resistente a ogni intemperia della vita, mi insegnò ad essere donna, prima di tutto.
Mi disse che sarei dovuta essere forte, e che avrei dovuto mantenere le distanze da chiunque avesse voluto prendersi cura di me imponendo se stesso come figura predominante.
Era quello il momento per prendere al volo l’indipendenza che tanto avrebbe voluto avessi. Tutto il resto sarebbe stato pari a zero. Persino gli sforzi per studiare.
Ora avremmo dovuto pensare solo a noi, e al bambino.

Finalmente tutto sembrava filare liscio.
Ma fu proprio in quel momento che qualcuno mai visto prima tra i vicoli del mio paese, bussò alla nostra porta.
Fulvio arrivò a casa mia trafelato, con due pesanti borsoni e un sorriso a trentadue denti. Tutto sembrava perfetto e io ero sempre più convinta che le cose sarebbero andate di bene in meglio.
Inutile dire che lui non piacque a nessuno. Nemmeno a mio padre. Tanto meno quando disse di volermi portare a Milano. Là avrei avuto ogni tipo di comodità, e poi lui aveva un bel lavoro come professore e tutto sarebbe stato più semplice.

“Maria non va da nessuna parte. Capito hai?” gli diceva mia madre.

Fulvio intano sopportava e taceva.
In quei giorni cercò in ogni modo di mantenere la calma necessaria per trovare un accordo con persone provenienti da un contesto molto diverso dal suo, e io provai a mediare ogni incomprensione, alla ricerca di un compromesso. Ma ogni sforzo fu inutile.
Tutto si risolse come un fuoco che imbrunisce irrimediabilmente la terra e rende pascoli idilliaci in cenere, quando Fulvio esplose in un impeto di rabbia rivendicando la sua patria potestà, liquidando ogni altro tentativo di imposizione da parte dei miei; quando egli chiarì le sue volontà in maniera decisa, e quando vidi mia madre ammutolirsi, per la prima volta.

Quel giorno il silenzio calò placando la foga come la buia notte invernale scende uccidendo le luci del giorno.

“Allora andatevene via”.
Una voce secca e laconica squarciò un requiem di anime addolorate. Dopo di che il silenzio.

Fulvio prese dunque le sue cose, compresa me, e seguì alla lettera il consiglio appena elargito da mia madre.
Andammo via.
Giusto il tempo di sfilare un dardo avvelenato dal cuore dei miei genitori, dopo di che fummo fuori di casa.
Chiusi così la porta in una mattina d’autunno, lasciando dietro di me due corpi esangui concedersi a una morte dolorosa.

Ora non riesco più a trattenere le lacrime.
Sono da settimane ormai distesa su di un letto d’ospedale rivivendo giorno per giorno quei momenti. Pregando che tutto finisca il prima possibile.
Dicono che ho un cancro e che mi resta poco tempo.
E allora che venga il mio momento! E che il vento riporti la mia anima dove finalmente possa riposare in pace. Che mi riporti all’ombra degli alberi di mimosa di mio padre e lì mi lasci per sempre.
Che la morte mi colga e mi liberi da questo tormento.
Che possa così mai più rivedere mio padre stretto a mia madre nel giorno in cui ho lasciato casa mia per sempre.
Che possa così smettere di sentire i lamenti strozzati di un uomo costretto a cedere il suo tesoro più prezioso, e che io possa dunque trovare pace al fianco dei miei avi.

Morirò qui a Milano, dove infine ho messo il punto alla mia vita ancor prima di compiere vent’anni. Tanto da aver dimenticato da subito il sapore della brezza marina.

Fulvio sì mi aiutò a prendere una laurea e l’abilitazione per poter insegnare proprio come lui. Mi sposò in una maestosa cattedrale, ma non mi diede indietro quel sapore che cercavo. Al contrario mise solide basi per far sì che mi stabilizzassi definitivamente nella sua città.
E così feci.
Come educatrice ho dato al mondo il mio piccolo contributo, come se in qualche modo avessi dovuto farmi perdonare per qualcosa.
Ho concesso la mia vita ad atti di pura gentilezza, per dare a chiunque la speranza che una vita migliore in fin dei conti esiste per tutti.

Avrei tanto voluto fosse così anche per me.

Non posso dire di essermi pentita di chi sono o di quello che ho fatto.
Ho cresciuto quattro figli proprio come voleva mia madre. Indipendenti, emancipati e liberi di essere chiunque abbiano deciso di essere, e di questo ne sono orgogliosa.
Ma avrei voluto tanto conoscere i miei nipoti. I figli di quelle sorelle e di quel fratello che al tempo in cui li abbandonai ancora non sapevano cosa volesse significare patire ciò che ho patito io.
Portarli al mare durante l’estate, e riposare con loro nella pineta di Putzu Idu.
Raccontargli di me e della mia vita proprio come sto facendo ora, e piangere insieme a tutti loro sopra le tombe dei miei genitori.
Ma quello che oggi mi rimane è una famiglia che mi reputa colpevole di tutte le loro sofferenze. Mi accusano di aver abusato dell’amore dei miei genitori e di averlo consumato del tutto, senza lasciarne a nessun altro.
Se solo avessero saputo quanto sterminato fosse il loro amore per noi!
Ma ora è inutile provare rimorso. Non mi resta che accettare ciò che di ineluttabile compone la mia esistenza e, tra piaceri e dolori, concedere alla mia famiglia tutto ciò che possiedo.   

Lascio ai miei figli il ricordo sfocato di una vita che non conosceranno mai. Un’esistenza passata come se niente fosse, a cavallo tra una terra cruda, dispersa in mezzo al mare, e la nostalgia per essa provata in battige lontane.
Lascerò a loro tutto l’amore che ho maturato in questi anni pensando alle lacrime versate da mia madre e al coraggio di mio padre nel lasciarmi andare via.

Questo è il mio testamento. Non ho nient’altro da donare a questo mondo.

La stanchezza ormai pesa e la vista mi si appanna, ciò nonostante riesco a vedere mia madre. Mi prende per il braccio poco prima di uscire di casa con Fulvio. Ha gli occhi gonfi dalle lacrime e la voce le trema a ogni parola che pronuncia, ma ha un tono deciso e il volto libero da ogni maschera.
Mi dice “Marié…mi a non dimenticarti da dove vieni. E che se le cose non vanno come devono andare, casa tua qua è e da nessun’altra parte”.

Con cinquant’anni di ritardo penso sia ora il caso di ascoltare il suo consiglio e di ritornare tra le mie montagne a volare tra le stelle del cielo e la spuma delle onde.
Spero ora di chiudere gli occhi e finalmente trovare la mia pace.

Dedico la mia vita a mia madre e a mio padre, e all’amore che muove il sole e le altre stelle.

Foto: Dominika Roseclay | Pexels.com | CC0