IN Breve

Al Referendum vince il No: dimissioni di Renzi e valanga su Pigliaru

  • Scritto da Paolo Ardu

L'esito referendario affonda la riforma Boschi e il governo Renzi, con il premier che da le dimissioni, òa valanga di No in Sardegna scuote la giunta Pigliaru. 

Poteva il solo Partito Democratico, diviso al suo interno da fratture sempre più profonde, vincere avendo contro tutti gli altri partiti e i sindacati contrari? Poteva una controversa riforma convincere un elettorato che appena qualche anno fa aveva rotto col bipartitismo Pd-Pdl? Poteva la comunicazione renziana prevalere sulla rabbia e sul malcontento per quelli che sono i problemi irrisolti da decenni in Italia?

Il No al referendum affonda Boschi e Renzi

Dopo 2 anni, 9 mesi e 17 giorni si conclude l'esperienza del primo governo Renzi. Matteo Renzi, 41 anni, ieri notte ha infatti rassegnato le dimissioni in una conferenza stampa televisiva dopo gli exit poll e l'arrivo dei primi risultati sul referendum costituzionale dai seggi scrutinati. Altra grande sconfitta è stata Maria Elena Boschi, 35 anni, ministra per le riforme costituzionali e i rapporti con il parlamento e cofirmataria insieme al premier della riforma, da confermare senza quorum col referendum. Delle possibili conseguenze del referendum ne aveva recentemente parlato anche la stampa estera paventando un periodo di incertezza istituzionale.

Il No alla modifica di 47 articoli della Costituzione italiana ha trionfato (59%) con quasi 20 punti percentuali rispetto al Si (41%) e circa 6 milioni di voti in più (5.987.299). É dai referendum del 1993 che non si registrava un'affluenza di tali dimensioni ai seggi (65,47%), ben superiore a quella dei più recenti referendum su temi costituzionali: nel 2001 fu circa la metà (34%) e successivamente nel 2006 il 52,46 per cento. Una corsa alle urne che, anche a causa di quella che è stata definita la “personalizzazione del voto” da parte di Matteo Renzi, si è rivelata come un giudizio pro e contro i 1017 giorni del suo governo. Il governo di un non eletto (come peraltro prevede la Costituzione stessa), nominato premier dopo la caduta del Governo Letta, seguito allo stallo dopo le elezioni del 2013.

I toni delle parti contrapposte e la lunga ed estenuante campagna elettorale hanno, da una parte avvicinato molte persone a temi complessi da manuali di diritto e, dall'altra, allargato il perimetro del conflitto politico e sociale a questioni costituzionali. Forse l'unica somiglianza con la Brexit, il recente referendum britannico sull'appartenenza all'Unione Europea. Stavolta i sondaggi, pur non misurando esattamente la portata, ci hanno preso. Hanno vinto la Rete, i social e gli influencer. Esiste ancora la "maggioranza silenziosa" invocata dal premier?

Quasi 19 milioni e mezzo di persone (19.419.507) hanno detto No contro i 13.432.208 Si. Le uniche regioni in cui il Si ha prevalso sono state la Toscana e l'Emilia Romagna (10mila voti di scarto) e tra quelle “speciali” il Trentino-Alto Adige. Il Si (al 65%) ha vinto sul No (35%) anche nella circoscrizione dell'estero, la cui affluenza nei diversi Paesi del mondo è stata però meno della metà di quella nazionale (circa 30%). E il voto degli italiani all'estero, ritenuto decisivo nei pronostici e sul quale si ipotizzavano brogli ed eventuali ricorsi da parte dei comitati per il No, è stato praticamente ininfluente. A differenza del sud Italia che ha votato No in massa e della Sardegna.

Nell'Isola il No a valanga diventa un voto politico sulla giunta Pigliaru

Il No in Sardegna ha toccato la vetta del 72% (616.791 voti), la più alta in Italia in termini percentuali, lasciando al Si appena 237.280 voti (circa il 28%). Le uniche comunità in cui ha vinto il Si sono state Semestene, uno dei trenta piccoli paesi che secondo gli studi sullo spopolamento tra dieci anni dovrebbe scomparire, e Aggius, entrambi in provincia di Sassari, e Armungia, paese in provincia di Cagliari che lotta anch'esso per la sopravvivenza e che diede i natali a Emilio Lussu, fondatore del Partito Sardo d'Azione. Il picco del No è stato raggiunto nelle province di Oristano e Cagliari. Per pochi decimali il No non ha raggiunto il 74 per cento: la prima con ben 62.328 su 84.758 votanti, mentre la seconda 308.815 No su 421mila.

Un voto politico, trasversale, da destra a sinistra, che va dai salviniani ai Cinquestelle senza rappresentanti in Regione fino alle diverse anime indipendentiste, e che ha unito nel No anche moltissimi delusi dalla ”annuncite” renziana, dalla sua arroganza e da una politica regionale di palazzo lontana dalle periferie urbane e dalle più piccole comunità interne. Un No alla politica degli “amici di Renzi”, accusati di voler cancellare i piccoli comuni sotto i 5mila abitanti, assecondare le riforme istituzionali neocentraliste, portare le scorie radioattive ad Ottana e riempire i suoli agricoli di pannelli fotovoltaici e di altre piantagioni per produrre energia. Un voto che è diventato anche un durissimo giudizio di metà mandato sulla giunta di Francesco Pigliaru in primis, e poi un atto di sfiducia profonda nei confronti di un Pd sardo che chiedeva l'approvazione di una riforma “mal scritta”. Un rassicurante Si al “meno peggio” di un'élite distante dai problemi reali che mano a mano perde rappresentati. Sono queste alcune delle ragioni per cui il 4 dicembre non ha vinto il populismo ma la necessità di affermare che il problema non sta nella Carta costituzionale.