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Spopolamento: per la Sardegna destino inevitabile?

  • Scritto da Effe_Pi

Secondo uno studio della Regione, sono 33 i comuni che rischiano di non avere più abitanti nei prossimi anni: è un destino inevitabile o una reazione è possibile?

Di Enrico Lecca

Secondo un recente studio, commissionato dalla RAS, e condotto dal sociologo Gianfranco Bottazzi e il docente di statistica Giuseppe Puggioni, in Sardegna trentatré paesi rischiano l'estinzione nel giro di sessant'anni. La notizia ci stupisce? Purtroppo no. Dagli anni '50 dello scorso secolo assistiamo in Sardegna al fenomeno dello spopolamento. Fenomeno che colpisce in misura maggiore le cosiddette “zone interne”, quelle più povere ed emarginate. Tra l'altro non si capisce mai dove inizino e dove finiscano queste zone interne, ma ormai l'espressione è entrata nel linguaggio comune e andando per esclusione si può dire che indichi, grosso modo, i paesi che: 1. non si trovano sulla costa e 2. sono distanti dalle principali vie di comunicazione. 

Sono dunque più di 60 anni che va avanti lo spopolamento dell'Isola. In passato chi saliva a bordo di navi o aerei andava nelle grandi città del nord Italia o dell'Europa centrale, alla ricerca di un posto in fabbrica o in miniera. Oggi sappiamo tutti chi decide di partire: giovani, perlopiù laureati e specializzati, che terminata la carriera universitaria si vedono costretti a fare la valigia e partire. La Sardegna di oggi ha poco da offrire a questi ragazzi e ragazze. Sembra incredibile un tale spreco di risorse, eppure si tratta di un fenomeno che registra numeri crescenti di anno in anno. Cioè, prima si investono risorse per preparare e specializzare questi ragazzi e poi, arrivati al momento della raccolta, quando finalmente si potrebbe godere della loro intelligenza e conoscenza, li si lascia partire. Il tutto, senza nemmeno fare un tentativo concreto per trattenerli, anzi molte volte li si spinge proprio ad andare, perché “ma cosa ci fai qui in paese sei sprecato” oppure “l'unica cosa che puoi fare è andartene

Addirittura, qualche tempo fa, un sindaco del sud Sardegna per combattere la disoccupazione aveva istituito un “bonus”, incentivo per chi avesse deciso di andare all'estero per un periodo non meglio precisato. Detto in altri termini, un amministratore che incentiva lo spopolamento della sua stessa comunità, perché non vede altro futuro per i suoi concittadini se non quello di prendere la strada per l'aeroporto. Sembra assurdo, quanto il problema dello spopolamento venga sottovalutato dalla attuale classe dirigente. Dalla classe dirigente attuale come dalla precedente e da quella prima ancora e così via. Quale piano è stato studiato per contrastare questo pericoloso fenomeno? Quali le misure, le idee e i progetti per impedire la diaspora delle nostre giovani menti? Davvero difficile rispondere. Molto più semplice invece rendersi conto di quali provvedimenti politici vanno nella direzione opposta, ovvero vanno ad aggravare la già critica situazione. Non che si voglia essere polemici contro l'attuale governo regionale o il precedente, o quell'altro ancora, è solo che “ndi tirada is ogusu a unu zruppu”! 

Chiudere le scuole, le ASL periferiche, ridurre o eliminare i servizi essenziali ai cittadini delle zone che già sono disagiate è come dare una fucilata a chi, dopo essere caduto, ti chiede una mano per rialzarsi. Si dice che bisogna ridurre le spese, razionalizzare i servizi ed eliminare gli sprechi. Il diritto all'istruzione e alla salute è uno spreco?  I rappresentanti politici che portano avanti questo progetto di desertificazione della Sardegna non fanno gli interessi dei sardi. Fanno altri interessi, magari i loro o magari dei loro partiti con sede a Roma o magari entrambi, non è importante. Ciò che è importante è invece rendersi conto che non fanno gli interessi di chi rappresentano, cioè del popolo sardo che vive, ama, sogna e soffre anche in quei piccoli centri in via di estinzione. Non possono esistere cittadini di serie A e cittadini di serie B. Una coppia che vuole mettere su famiglia è obbligata ad abbandonare il piccolo paese per trasferirsi in un centro più grande con scuole, ambulatori, ASL e tutti quei servizi e diritti che ormai ritenevamo conquistati per sempre. Trasferirsi comporta più spese, perché nel grande centro la vita è più cara e maggiore la lontananza dalla famiglia di origine, dai nonni che sempre più svolgono una funzione determinante nell'allevamento dei figli/nipoti.  Insomma, i dati sui trentatré comuni in via di estinzione sono oltremodo sconfortanti, ma perfettamente in linea con la gestione politica degli ultimi sessant'anni. Sarebbe bello che proprio da quelle comunità sempre tenute ai margini, sempre in crisi, si levasse un nuovo sentimento di consapevolezza, una presa di posizione ferma e decisa per dire no a questo ennesimo sopruso, con gli amministratori locali in testa.