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IL GIARDINO DEI SICOMORI | Capitolo 2

  • Scritto da Luigi Citroni

Un thriller avvincente e dal ritmo serrato ambientato in Sardegna!

IL GIARDINO DEI SICOMORI
di Luigi Citroni
CAPITOLO II

Sabatini tastò il tavolino senza particolare attenzione alla ricerca del suo pacchetto di sigarette.

Si affidò al suo istinto da fumatore risparmiando i suoi occhi, rivolti immobili verso il lastricato del porto che rifletteva i raggi violenti di un sole allo zenit.

Con il viso corrucciato scrutava la luce danzare sul liscio pavimento di marmo levigato, mentre a pieni polmoni respirava ogni cancerogena essenza della sua sigaretta.

Un cielo terso di fine estate, per qualche istante, venne solcato da un fumo vellutato, poco prima che si dissolvesse e sparisse al soffio di qualche sfrontata brezza.

- Non ti rilassare troppo. Fra cinque minuti ci aspettano in commissariato-

Una voce interruppe il suo vagare tra pensieri vagabondi, mitigati dal tepore pomeridiano all’ombra di un bar.

Con mani bagnate e i manicotti della camicia piegati fino al gomito quella voce riportò alla realtà il suo collega sornione.

- Dai muoviti- disse – ho pagato io. Alza il culo che siamo già in ritardo-

Fanti fulmineo tolse la sigaretta ormai ridotta a un mozzicone intriso di nicotina dalla bocca di Sabatini, la scagliò oltre il marciapiede, e lo esortò ad abbandonare la sua condizione di beato, assorto in un dolce far niente.

La loro Alfa Giulia li aspettava a pochi passi dal comune, poco lontano dal bar, all’ombra di una palma secca. Condizione questa che le permise di assorbire quanto più calore possibile, rendendosi simile a una fornace dalla quale ne sarebbero potuti uscire degli stampi di ferro fuso.

Fanti tirò fuori dalla tasca un panno bianco lattiginoso, e con esso stretto tra le mani aprì la portiera, poco prima di entrare e sciogliersi ulteriormente, lasciando gran parte della sua cute attaccata ai sedili in pelle beige.

In un attimo la macchina fu in moto, e subito sfrecciò lungo via Roma come un meteorite incandescente che invade l’atmosfera.

- Io non capisco la tua cazzo di fretta- disse Sabatini – ogni volta con te è la stessa storia. Cazzo non ci si può godere nemmeno un attimo di tranquillità che tu ne sbuchi da qualche parte a rompere i coglioni-.

Tra le labbra stringeva l’ennesima sigaretta mentre Fanti a stento tratteneva l’impulso di spegnergli l’accendisigari sullo zigomo.

Livio Fanti e Venanzio Sabatini si conoscevano ormai da quasi vent’anni, e in quest’arco di tempo quella che sarebbe potuta essere un indissolubile amicizia divenne una scomoda convivenza.

- Venanzio tu non fai un cazzo dalla mattina fino alla sera, a parte bere e fumare e scoparti qualche cazzo di ragazzino. Almeno abbi il buon senso di non far uscire letame dalla tua bocca quando ci chiamano in commissariato e ci chiedono puntualità- disse Fanti con le mani strette sul volante – e se puoi- proseguì – davanti al commissario non parlare. Il tuo alito sa di Vecchia Romagna e tabacco, e se ti dovessi beccare un’altra cazzo di nota disciplinare, me la becco pure io. Ti è chiaro il concetto? -

Sabatini rimase impassibile.

Provò anche se a fatica, a non ascoltare le parole pronunciate dal suo collega, spostando la sua attenzione verso altri fatti e piaceri frugali completamente avulsi dal lavoro.

Con il braccio fuori dal finestrino e il fumo di una John Player Special a intasargli ogni via respiratoria, guardava Cagliari dispiegarsi tra vicoli stretti e case a picco sul mare, trapuntate da un’impercettibile velo di caldo torrido.

In men che non si dica, dopo innumerevoli infrazioni, l’Alfa dalla carrozzeria ancor più rovente di prima, trovò spazio tra due pattuglie del distretto di Sant’Avendrace.

I due scesero visibilmente storditi da un viaggio frenetico, e in qualche maniera provarono a ottenere da loro stessi un tono consono, e una presentabilità almeno al limite con la professionalità richiesta.

Sistemandosi la camicia intrisa di sudore alla bene e meglio, salirono le scale di granito del commissariato, e in un attimo furono dentro a rigenerarsi in un atrio ventilato.

Dal taschino della camicia un pacchetto di John Player Special rosse inviò messaggi subliminali a Sabatini che, senza rifletterci due volte, lo agguantò e butto fuori un tronchetto bianco pallido senza filtro, pronto a togliergli altri giorni di vita.

- Se dai retta a me la butti nel cesso- disse una voce squillante dal forte accento isolano. – Non te lo dico per la tua salute, perché di quella non me ne sbatte un cazzo, ma perché non è la prima volta che ti dico che qua dentro non si fuma. Mi hai stancato Sabatini, la prossima te la faccio fumare dal culo-.

Il commissario Andreolli aveva un corpo esile mangiato dall’epatite.

Il suo colorito a seconda dei giorni pareva essere un addio al mondo e un benvenuto nel regno dei cieli. Ciò nonostante, respirava ancora per quanto gli fosse possibile la salubre aria di mare della sua città.

Con gli occhi serrati e le sopracciglia arcuate seguì Sabatini nel lento rituale di congedo dal fumo, e con un gesto del capo invitò entrambi a entrare dentro il suo ufficio.

Varcato l’uscio, un’aria ancor più fresca ristabilì l’ordine negli organi sconquassati dal caldo dei due incamiciati.

- Però commissario- disse Sabatini guardandosi intorno – a voi pezzi grossi dell’isola vi trattano come

signorotti, e a noi poveri galoppini del “continente” ci mandate a farci divorare dalle zecche e dalle zanzare in questo pezzo di Africa-.

Fanti imbarazzato cercò gli occhi del commissario per sottolineare un disappunto da condividere, ma Andreolli nel suo completo blu scuro ammonì l’inadeguatezza di Sabatini con un’occhiata di biasimo, e senza perdersi in inutili chiacchiere, esortò i due a prendere posto intorno alla sua scrivania.

- Il questore, ahimè, mi ha imposto di far finta che voi due serviate a qualcosa, e di assegnarvi un incarico che, credetemi, non vi meritate- disse il commissario con una leggera nota di sconforto.

- Se si tratta di un altro furto di vacche a Pecoraville, risparmi la fatica commissario, lo cediamo volentieri- disse Sabatini

La malcelata arroganza del sottoposto irritò ancor di più un commissario che, nella sua salute cagionevole, non riuscì a trattenere la rabbia che esplose in un arcobaleno di colori appassiti lungo tutto il suo viso.

- Alla prossima stronzata ti faccio fottere per insubordinazione Sabatini. È chiaro? – urlò esasperato Andreolli.

Fanti fino ad allora rimasto in silenzio, notando la situazione al limite del sopportabile riprese il collega come al suo solito, e con tanto di scuse chiese al commissario di continuare.

Senza prestare attenzione alla diplomazia di Fanti, Amedeo Andreolli aprì il cassetto della sua scrivania e tirò fuori un fascicolo che posò con stizza sotto gli occhi dei due investigatori.

- Sandra Beselasi- disse il commissario riprendendo fiato come se fosse reduce da uno sforzo sovraumano.

- Sandra Beselasi- continuò sfilando dal fascicolo la foto della ragazza– madre sarda, padre egiziano, entrambi residenti a Santa Croce. Denuncia scomparsa risalente al tredici settembre 1963. Del caso se n’è occupata la squadra mobile di Oristano, senza aver cavato il ragno dal buco- dopo una solenne pausa disse – fino al venti settembre 1963-. Dopo di che prese una nuova foto dal fascicolo e proseguì dicendo: - Una chiamata anonima al centralino del commissariato di Oristano denunciava il ritrovamento di un cadavere. Presumibilmente della povera ragazza scomparsa qualche giorno prima. Questo è quello che hanno trovato– ribadì trascinando la foto lungo il legno levigato dello scrittoio.

Fanti e Sabatini d’un tratto abbandonarono la loro supponenza e osservarono la foto in rigoroso silenzio.

In men che non si dica l’ufficio rigenerato da un fresco artificiale, si trasformò in una camera iperbarica dove la tenue tensione iniziale divenne opprimente oltre ogni limite.

 - Dai primi rilievi la vittima, non ha riportato nessun tipo di molestia. Nessuna ecchimosi, nessun segno di stupro. È stata denudata, e immobilizzata con funi e cavi elettrici intorno a un tronco. La vittima con tutta probabilità è stata sedata. Non c’è nessun segno di colluttazione, solo un taglio sottile lungo il collo sotto il mento, fatto verosimilmente una volta legata al ceppo– disse il commissario.

I due investigatori si guardarono con stupore. Rimasero increduli davanti a ciò che pian piano prendeva forma in un ufficio dalle fattezze moderne.

- Perché ci sta dicendo tutto questo signor commissario – chiese Fanti con un nodo in gola – perché non se ne occupa la polizia di Oristano? perché noi? –

- Il problema- riprese il commissario – ed è un problema…è che l’addetto al centralino che ha ricevuto la chiamata anonima, come da prassi ha chiesto più e più volte chi fosse dall’altro capo del filo, ma l’unica cosa che questo fantomatico uomo ha detto è stata…..un attimo…fatemi cercare il foglio... ecco: al ventesimo chilometro sulla strada provinciale che collega Santa Croce e Vecchio Castello c’è un piccolo anfratto segnalato da un nastro azzurro. Cento metri più in giù lungo il versante est troverete il corpo senza vita di Sandra Beselasi. Livio Fanti e Venanzio Sabatini. Loro hanno la risposta. Dopo di che la conversazione è finita. Ed ecco perché voi due, grandissime teste di cazzo, siete qua.

- Che cosa?!- gridarono all’unisono i due.

Dopo qualche secondo colmo di incertezza e incredulità Sabatini, rivoltosi verso il suo collega, lo esortò ad alzarsi e ad abbandonare un ufficio, nel quale ingenuamente pensava si stesse perpetrando uno scherzo di cattivo gusto.

Fanti glissò sull’atteggiamento del suo compare e con tono preoccupato disse: - Con tutto il rispetto signore. Ma ci sta prendendo per il culo? –

Andreolli sollevando lentamente gli occhi dalle sue scartoffie, guardò schifato i suoi sottoposti, come se davanti a lui avesse raggruppato il peggio dell’umanità abbigliato a forze dell’ordine. A responsabili della giustizia. Con tono grave rispose: - Ora…devo impegnarmi più di quanto pensassi per mantenere la calma e non sbattervi nelle fogne da cui penso proprio che ne siate usciti, brutti topi insolenti. Vi chiedo solo se secondo voi, una ragazza sgozzata, denudata in un bosco, lasciata per giorni a marcire sotto la pioggia e a farsi divorare la carne dall’umido di montagna, sia un cazzo di scherzo- dopo una breve pausa riprese – voglio proprio capire se nella vostra mente bacata un omicidio efferato come questo possa essere oggetto di una simpatica burla. Ma…capisco che per voi abituati a fottervi le bestie nei viali in periferia questo possa essere plausibile, ma per la gente comune, per chi fa questo lavoro ormai da una vita, non lo è. –

Il caldo torrido protagonista di un pomeriggio di settembre ancora legato all’estate, sembrò passare attraverso ogni fessura e prendere nuovamente possesso dei due investigatori. D’un tratto gocce di sudore grosse come torrenti in primavera solcarono le loro tempie per poi scendere lungo il volto, mentre chiazze scure tinsero di nuovi colori le loro camice stropicciate.

- Badate bene- incalzò il commissario – se fosse stato per me, voi due ora sareste qui con le manette ai polsi, con l’accusa di complicità in omicidio. Ma il questore non vi considera così intelligenti da essere inseriti in una matassa intricata come questa- dopo essersi asciugato la fronte inspiegabilmente sudata, Andreolli continuò con biasimo – la vostra stupidità vi ha ficcato in questo casino e ora vi tocca fare il vostro lavoro. Sempre che abbiate idea di come svolgerlo. –

Fanti e Sabatini ancora increduli per ciò che ebbero appena appreso, non fecero caso al solito sproloquio del commissario.

La loro mente oramai vagava in terreni sconosciuti alla ricerca di risposte, di spiegazioni a un improbabile gioco del destino.

Il loro errare tra rigurgiti di pensieri scaturiti dal panico trovò fine solo quando con voce flebile Fanti chiese: - non crederà mica che noi siamo in qualche modo coinvolti?

- Ve l’ho già detto. Siete troppo stupidi per esserlo di proposito. Ma l’assassino o comunque chi sapeva i particolari fondamentali riguardanti il luogo del delitto vi conosce. E dice che voi avete le risposte. Quindi il caso è vostro.

Partirete domani. Il questore vi ha trovato un alloggio in un borgo a pochi chilometri da Santa Croce. Vi metterete al lavoro da subito e sarete affiancati da un ex ufficiale del posto.

Vi consiglio di portarvi qualcosa di più pesante di semplici camice da finocchio. L’autunno lassù sembra essere arrivato, e dopo tutto state andando in una zona di montagna. Vi assicuro che un giacca a vento vi sarà utile. Ora sparite. –

Con un gesto della mano liquidò i due uomini come si scaccia via una mosca. Diede loro una copia del fascicolo, e senza interlocuzioni li rispedì a patire le poche ore di caldo che avrebbero trascorso in quella città.

Poco prima di congedarli definitivamente il commissario li bloccò sull’uscio e disse: - io lo so chi siete voi. Lo siamo stati tutti. Almeno una volta nella vita. Tutti gli uomini che abitano questo mondo in questi anni. –

Detto ciò Andreolli chinò la testa su una catasta di fogli appena sparsi sulla scrivania, e aspettò con ansia che i due uscissero chiudendo la porta dietro di loro.  

- Porca vacca- disse Sabatini – il vecchio peggiora di giorno in giorno.

- Vinicio ti prego chiudi la tua cazzo di bocca- rispose Fanti – ma ti rendi conto di che cazzo ci sta passando tra le mani?

- Stronzate- sentenziò Sabatini – fidati di me, è un modo come un altro per non vedere le nostre facce. Sì sì, hanno ammazzato una ragazza in un mucchio di case incastrate in una merda di montagna, ma fidati Livio è la solita storia. L’ennesimo omicidio di una puttana perseguitata da un cliente più schizzato del solito-.

Livio Fanti osservò con incredulità il collega divincolarsi in teorie senza senso. Lo guardava allietarsi tra l’aria condizionata e la sua insana capacità a non dar rilevanza a tutto ciò che avrebbe potuto costituire un problema.

- Facci caso- continuò Sabatini- quante volte ci ha minacciato dicendoci che ci avrebbe spedito chissà dove pur di non sentire le nostre voci e vedere le nostre facce? Ed eccoci qua, l’occasione è arrivata-

- Giuro Venanzio…non so cosa risponderti-

- Non devi dire niente Livio. Ora l’unica cosa che dobbiamo fare è prepararci alla partenza. Ci vediamo alle sei e mezza al Charlie Shot, liquidi e polvere, e domani mattina siamo pronti per questo supplizio-.

In quell’istante Fanti pensò di averne avuto abbastanza. Incredulo e amareggiato aprì la porta del commissariato pronto per lasciarsi dietro Sabatini e tutte le sue elucubrazioni, ma un’improvvisa folata di caldo torrido, per un istante insinuò scrupoli nell’uomo che in un attimo fu disposto a riconsiderare le teorie del collega, pur di rimanere al fresco.

Ma in una frazione di secondo rinsavì e con fare cadenzato, in pochi istanti, fu a un passo dalla macchina, lasciando Venanzio Sabatini fermo sull’uscio, con il viso rivolto verso un mondo infernale e il sedere al fresco in paradiso.

- Livio ma che fai? Se non ti va bene il mio programma ho anche il bigliettino che ci ha lasciato la ragazza dell’altra sera- gridò Sabatini dal pulpito del commissariato, poco prima che la macchina rombasse e sparisse tra l’afa e l’aria densa di un pomeriggio di settembre.

L’Alfa Giulia rimase immobile parcheggiata nel lungo mare di Marina Piccola fino al momento in cui il sole decise di rifugiarsi oltre l’orizzonte.

Sembrava si riposasse cullata dal fresco crepuscolare portato dal mare.

Lucio Fanti camminava ormai da qualche ora avanti e indietro lungo il littorale.

A piedi nudi, pantaloni alla zuava e camicia sbottonata, passò in rassegna ogni anfratto di quella spiaggia.

Tra le mani una bottiglia di J&B quasi del tutto vuota e per la testa troppi pensieri. Troppe domande senza risposta.

Un corpo di una ragazza uccisa a centinaia di chilometri dalla loro sede di lavoro. In un paese sconosciuto. Una realtà sconosciuta. Eppure proprio loro, lui e il suo collega, secondo qualcuno, avevano la risposta.

Il poco whisky avanzato nella bottiglia, a ogni passo, si agitava tra le pareti di vetro proprio come i suoi pensieri rotolavano da una parte all’altra come biglie in un contenitore.

Barcollando tra ciottoli e sabbia sottile Fanti non riusciva a fermare il flusso incontenibile di riflessioni, ipotesi e impossibili spiegazioni che, immancabilmente, provocarono un’ansia difficile da gestire. Una paura provata pochissime volte in tutta la sua vita.

Il panico così si fece largo pian piano tra la giungla dei suoi pensieri e un fiotto di lacrime involontarie solcarono il suo viso.

Il cuore iniziò a rullare impazzito dietro la gabbia toracica, e il respiro per qualche secondo venne strozzato ancor prima che raggiungesse i polmoni.

Le gambe cedettero e lasciarono cadere un corpo vecchio cinquant’anni sulla sabbia umida.

Disteso con lo sguardo perso tra l’immensità del cosmo Fanti respirò di nuovo.

Il cuore riprese a pompare il sangue con più calma e le lacrime si asciugarono come ruscelli in secca estiva, prima di confondersi tra la sabbia.

 “Lo siamo stati tutti. Almeno una volta nella vita. Tutti gli uomini che abitano questo mondo in questi anni”.

Come un fulmine a ciel sereno arrivarono le parole pronunciate qualche ora prima dal commissario.

Arrivarono e sconquassarono ancor di più il suo essere d’un tratto vulnerabile.

Quelle parole avevano un senso. Per quanto conoscesse Andreolli sapeva che non potevano essere state buttate lì a caso.

Ma le risposte erano ancora troppo lontane.

Nel mentre il mare stagnava placido nel suo covo sabbioso. Ondeggiava impercettibilmente seguendo il soffio di venti filtrati dalla baia.

Avanti e indietro le onde si inchinavano al mondo lungo la battigia, e riflettevano a intermittenza le luci del tramonto che brillavano come stelle del firmamento.

I rumori soffusi della città si perdevano tra il battito d’ali dei fenicotteri, e le luci degli hotel e delle case parevano fiaccole accese in continenti lontani.

In un attimo la pace prese piede, e il panico si fece da parte.

Di nuovo in piedi, immobile con i talloni sommersi dalla sabbia, Fanti scrutava l’orizzonte provando a capire dove finisse il mare e iniziasse il cielo. Ogni paura si acquietò e lasciò il posto al nulla che rimase oltre i suoi pensieri.

Sandra Beselasi e Amedeo Andreolli d’un tratto si dissolsero in un sorso di whisky, e il mare davanti a sé riportò alla mente i suoi giorni d’infanzia. Giorni passati a piedi nudi sull’Ardo all’ombra della Schiara.

Ricordi che erano ormai il richiamo di una vita che a stento credeva di aver trascorso.

La sua giovinezza sembrò essere un qualcosa di acquisito e non di vissuto, come se ne avesse sentito parlare da qualcuno, o ne avesse letto qualcosa distrattamente sulle pagine di un vecchio libro.

Il mare di Cagliari richiamò all’ordine i ricordi, e loro zoppicanti si fecero avanti. Ma erano confusi e sfocati. Lo erano persino i volti di coloro a cui un tempo riuscì a concedere il suo amore.

Figure anonime. Anime sole, vagabonde in un limbo senza via d’uscita.

Eppure qualcosa in lui si risvegliò. Sentì il fiume scrosciare tra le rocce. L’acqua fresca tra le mani e l’aria di montagna.

Ricordò casa sua e i suoi fratelli. Qualcuno era ancora vivo? Non ne aveva idea.

Riaffiorarono i verdi pascoli su per le Dolomiti. Le intrepide scalate e le cenge sulle quali ormeggiare la propria stanchezza.

Ma niente di più.

Tutto il resto sembrava essere una cartolina. Un’istantanea statica, impassibile al cambio di stagione.

La tristezza lo colse come un battello imprigionato in un maelstrom nel mezzo dell’oceano, e tra pensieri ancor più confusi e imbevuti di whisky provò a decifrare le parole dei suoi avi tramutate in codici arcadici.

Il messaggio che riuscì ad ottenere fu inequivocabile: ormai in questo mondo non c’era più nessuno che pensasse a lui. Era solo. Definitivamente solo.

“Se dovessi morire qua, adesso, a chi importerebbe?” pensò “Sarei una carcassa galleggiante niente di più…Forse saremmo dovuti morire tutti vent’anni fa. O almeno sarebbe stato tutto molto più semplice”.

Fanti chiuse gli occhi. Si gettò di schiena su una piccola duna di sabbia e, spronando la sua mente affinché gli concedesse il motivo per continuare a vivere, provò a piangere senza riuscirci.

Si rese conto di non aver più lacrime da versare. Di essere arido. Di non aver più un motivo valido per provare piacere o sofferenze. Solo costante angoscia con la quale convivere ogni minuto di ogni giorno.

Guidato da questa amara consapevolezza a fatica tentò di sollevarsi. Con la bottiglia ormai vuota e il corpo contrito dagli effetti dell’alcool, vide il modo intorno a sé girare in maniera inconsueta, conferendogli una nuova concezione di equilibrio.

Per di più il reflusso acido di alcool fermentato tra i succhi gastrici, gli diede il permesso di vomitare il suo benestare sui piedi nudi, poco prima che l’impulso di riottenere un tono adeguato alla sua professione lo rimise sull’attenti.

Visibilmente stordito s’incamminò verso la macchina, pronto per tornare a casa, ma qualcosa bloccò la sua marcia.

Si fermò di scatto senza capire bene il perché. Guardò la sua macchina con occhi vacui, per poi scrutare il paesaggio intorno a lui senza effettivamente vedere ciò che guardava. La sua mente mise in stand by ogni senso e decise di dar rilevanza a un pensiero saltato fuori dal nulla. Un ricordo di un tempo passato in terre lontane. Un legame con qualcosa che in un modo o nell’altro alimentava la sua insistente angoscia.

Le mani ad accarezzare i capelli e le tempie non lenirono lo stato di confusione improvvisa, poiché in nessun modo essa mollo la presa su di lui.

Qualcosa iniziò a tormentarlo da zone recondite. Un eco lontana che via via acquisiva vigore man mano che i secondi passavano.

Un urlo disperato. Il pianto di una generazione di uomini incespicata nel fango.

O forse una prima sommessa ammissione di colpevolezza.

Quella notte passò silenziosa tra i vicoli. In punta di piedi in mezzo alle piazze. Grassa e volgare tra le bettole e i circoli privati dove con un soffio tirò via le polveri bianche dalle narici di Venanzio Sabatini.

Al contrario passò rumorosa per Livio Fanti. Il quale con un rombo si lasciò dietro, tra la sabbia, un tenue ricordo di giovinezza. 


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Foto: Pixabay | Tama66 | CC0