Cagliari: i migranti di piazza Matteotti ripuliscono i giardini
- Scritto da Paolo Ardu
Migranti e volontari dell'associazione L'Aquilone di Don Carlo Follesa si rimboccano le maniche e ripuliscono i giardini di piazza Matteotti, per tantissimi anni abbandonati al degrado.
Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce, così anche nel sottobosco della rete dove certe notizie sono più lette di altre, quelle di cronaca nera su tutte. Ma questa non è una notizia di nera, a parte il colore della pelle di alcuni dei protagonisti. Non è un'"invasione", e forse è per questo che telecamere televisive e quotidiani locali l'hanno praticamente ignorata.
Lunedì scorso, nei giardini di piazza Matteotti a Cagliari, capolinea dei treni regionali e dei bus della città, ha prevalso la voglia di non voltarsi dall'altra parte e di rimboccarsi le maniche.
I volontari dell'associazione L'Aquilone e la sua Unità di strada che opera quotidianamente sul campo, col sostegno dei servizi sociali del Comune, hanno portato scope, rastrelli, palette e buste per pulire la piazza. A loro si sono uniti i migranti che dal loro arrivo in città vivono e dormono per strada, nei pressi della stazione.
Foto: Don Carlo (a sinistra) e alcuni ragazzi ripuliscono i giardini.
Anche Don Carlo Follesa, classe 1940 e parroco di Is Mirrionis, ha imbracciato il rastrello e s'è messo a ripulire dai rifiuti i giardini e la fontana, da tempo senz'acqua, e nota alle cronache per essere utilizzata come latrina.
Giardini pubblici mai riqualificati e a lungo abbandonati al degrado che, con l'arrivo dei profughi, sono diventati luogo di sosta soprattutto per quelli, in particolare eritrei e siriani, che vogliono proseguire il viaggio per ricongiungersi ai parenti nel nord Europa.
L'Aquilone da mesi, anche con l'ausilio di un camper, offre acqua, tè, panini e mele a chi soffre situazioni di disagio e anche coperte e materassi. “Queste persone ringraziano” – racconta don Carlo – “ma dicono che non vogliono assistenza. Vogliono una prospettiva per il futuro”. “Cagliari è una città generosa, ma bisogna affrontare il problema. A quello serve la politica. E la Sardegna deve essere capace di organizzare una risposta per accogliere, impegnarsi e condividere” – continua il parroco.
“Sono un prete, sono un uomo di strada. La politica dell'immobilismo crea le ragioni dello scontro e noi non passiamo oltre, come nella parabola del buon samaritano” – alza il tono don Carlo, che ricorda quella chiesa rappresentata per molti da personaggi come Don Milani – “per questo serve capire come vivono nei centri, non devono sentirsi abbandonati”.
Sono una trentina i migranti che attualmente dormono in stazione. In prevalenza provenienti da Gambia, Senegal, Marocco, Egitto, Somalia, Sudan ed Eritrea. Del loro censimento e collocamento in altre strutture di zona si occupa anche la Caritas diocesana.
“Siamo uno strumento importante, spesso sussidiario a quelli istituzionali coi quali interagiamo molto perché parliamo con i migranti, cerchiamo di capire le loro esigenze e diamo il nostro contributo anche per la loro identificazione” – racconta don Marco Lai, direttore dell'ente ecclesiastico.
Non saranno le risposte securitarie o la costruzione di muri ad arginare il fenomeno. “Il diritto alla mobilità universale è sempre esistito. Anche dalla Sardegna sono partiti e continuano a farlo in molti che, a parte quelli col titolo di studio, sono per lo più senz'arte né parte, alla ricerca di un futuro altrove.”
E poi la deriva demografica e quella occupazionale, il bisogno di qualcuno che faccia i lavori che nessuno vuole più fare e quello di accogliere. “In Sardegna servirebbe un'accoglienza diffusa sul territorio che diventi un punto di forza: una famiglia in ogni Comune. Forse su scala nazionale questa proposta sta passando”. Ma resta l'incognita delle amministrazioni, su 8mila solo 400 hanno finora accolto.
Alla fine della serata per tre volte il camion ha caricato e scaricato rifiuti e Gina dell'Unità di strada è felice. “Sono stati tutti volenterosi ed entusiasti di aiutarci” – dice. Gina ha vissuto 7 anni in Francia e lì ha cresciuto tre figli. “E noi dobbiamo dare il nostro meglio. Perché so cosa vuol dire emigrare” – chiosa “mamma Africa”, come la chiamano affettuosamente quei ragazzi che potrebbero essere suoi figli.
Foto Spugna: Pixabay | CC0 Public Domain