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Muhammad Ali: Nessun Vietcong mi ha hai chiamato negro

La storia della renitenza alla leva del pugile più famoso di tutti i tempi simbolo della lotta per i diritti civili oltre che di uno stile sportive mai eguagliato.

Di Roberto Ecca

-Ali, sai dov’è il Vietnam?-

La seconda metà degli anni 70 rappresenta per gli Stati Uniti un periodo di cambiamenti, e soprattutto di grandi tragedie. La morte dei fratelli Kennedy, John (1963) e Robert (1968), quelle di Malcom X (1965) e di Martin Luther King (1968) segnarono in modo eclatante tutto il decennio. Manifestazioni di protesta soprattutto degli afroamericani, che rivendicavano più diritti, e dei movimenti pacifisti contro il conflitto in Vietnam divennero sempre più frequenti. Molti personaggi celebri, compresi gli sportivi, fecero sentire la propria voce. Se poi lo sportivo in questione è il campione del mondo dei pesi massimi e si chiama Muhammad Ali allora questa non è una semplice voce o un semplice parere ma un terremoto che spacca letteralmente l’opinione pubblica americana.

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Con uno stile e una leggiadria mai viste prima nel pugilato e soprattutto nella categoria dei massimi, già campione olimpico a Roma nel 1960 e dopo aver conquistato nel 1964 il titolo mondiale nella categoria dei Massimi sconfiggendo Sonny Liston, Ali sembrava destinato a una carriera senza eguali nella storia dello pugilato, “vola come una farfalla pungi come un ape” è il motto che inventò per lui Drew Bundini Brown, componente del suo entourage. Ma in quello stesso anno l’ufficio leva di Louisville, sua città natale, aveva “riclassificato” Cassius Marcellus Clay (il suo nome di battesimo, che cambiò in Muhammad Ali nel 1964 dopo la conversione all’Islam) “immediatamente arruolabile”. Riclassificato perché qualche anno prima le forze armate statunitensi registrarono Clay come “abile a servizi sedentari”: praticamente intellettualmente limitato.

Ma la guerra del Vietnam era diventata un affare troppo grande e l’esercito statunitense aveva la necessità di arruolare sempre più soldati: Muhammad Ali faceva parte di questi. Nel 1967 dovette rispondere alla chiamata dell’ufficio trasferimenti per prestare giuramento; al suo arrivo nel palazzo delle forze armate, tra due ali di giornalisti che lo assillavano e opprimevano con le domande pronunciò quella frase diventato il suo mantra: “perché dovrei andare a combattere in Vietnam? Nessun vietcong mi ha mai chiamato negro”. Il suo essere musulmano, le sue amicizie con la Nation of Islam e quella con Malcom X non giovavano alla sua reputazione: questo naturalmente agli occhi della società statunitense dell’epoca, in prima persona a quelli del presidente Lyndon Johnson.

Quando l’ufficiale incaricato pronunciò la formula di rito – Cassius Marcellus Clay - faccia tre passi avanti per prestare giuramento- il campione rimase immobile: il tenente ripeté la formula. Niente. Ali non si mosse. A questo punto fu portato in una stanza adiacente e gli venne fatto presente che se avesse rifiutato ancora una volta di prestare giuramento sarebbe stato considerato renitente alla leva e condannato a 5 anni di carcere e a diecimila dollari di multa. Ali non cambiò la sua decisione. Lui in Vietnam non vuole andare e si dichiarò obbiettore di coscienza per motivi religiosi. La risposta del governo americano fu durissima: ritiro della licenza per boxare e ritiro del passaporto: la carriera del campione era compromessa, per non dire distrutta.

Appena la notizia si sparse, nel paese scoppiò il putiferio; molti si schierarono con lui, soprattutto i giovani, fu invitato in varie università, furono indette manifestazioni pacifiste per solidarietà, ma molti, moltissimi lo attaccarono per non essere andato in guerra e soprattutto per non essere, a detta loro, un patriota. All’epoca Ali aveva 25 anni, era nel pieno della carriera, Ma per lui era più importante la sua coscienza, la voglia di essere considerato, “come voglio essere io, non come dovrei essere per gli altri”. Era troppa la popolarità raggiunta dal campione: gli Stati Uniti non volevano diventasse un modello, soprattutto per gli afroamericani, adesso che le tensioni per la battaglia per i diritti civili erano all’apice.

Tanti furono i ricorsi fatti da Ali ma solo tre anni e sette mesi dopo, la corte suprema decise che nel caso “Clay vs United States” l’arruolamento possa essere rifiutato per motivi religiosi. Ali vinse la sua battaglia. Ma sul piano sportivo ben più difficile fu il rientro ai livelli precedenti la squalifica. Ma stiamo parlando di quello che forse è il più grande sportivo di tutti i tempi, e nonostante i tre anni e mezzo lontano dal ring, grazie alla sua forza, al suo carattere e soprattutto ad una consapevolezza dei propri mezzi che non ha eguali nel mondo dello sport, tornò, e alla grande.

Fu protagonista delle più celebri battaglie della storia del pugilato: le tre battaglie con Joe Frazier, le sfide con Ken Norton, gli ultimi match con i già evidenti segni del morbo di parkinson. Ma il match che lo consacrò e lo innalzò agli altari dello sport fu quello che forse è il più famoso, o comunque uno dei più famosi, incontri della storia della boxe: Alì-Foreman nell’allora Zaire di Mobutu nel 1974; il celeberrimo Rumble in The giungle, conclusosi con la vittoria del già trentaduenne Ali che mandò al tappeto all’ottavo round il più giovane George Foreman, favorito per la vittoria finale.

Fece commuovere il mondo quando alle Olimpiadi nel 1996 ad Atlanta, già pesantemente segnato dalla malattia che lo affliggeva, fu ultimo tedoforo e durante la cerimonia d’apertura accese il braciere olimpico.

- Ali sai dov’è il Vietnam?

- Si, in tv.

Mai banale, mai scontato, semplicemente “The greatest”, il più grande.

 

 

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