IN Breve

CRISTO PARLA SARDO CON SU RE

  • Scritto da Effe_Pi

Una terra di drammi sottolineati dal linguaggio ruvido e “violento” del sardo, più ancora che la storia universale della passione di Cristo e le sue ultime ore di vita.

Questo è il film di Giovanni Columbu “Su re”, nelle sale ormai da oltre un mese (è uscito il 28 marzo), che continua a essere programmato almeno nelle grandi città (a Roma ad esempio si può vedere ancora al Filmstudio), visto l’interesse “di culto” che ha creato.

Un film impietoso, senza un fronzolo, privo di musica fino al finale, forse l’unico momento di speranza vera di tutta l’opera, in cui tre bambini vedono qualcosa (Cristo che risorge?) e fuggono spaventati, mentre finalmente suona il Nunc Dimittis di Arvo Pärt. Prima, tutto è tradimento, violenza, insulto, pestaggi impietosi sul corpo di un uomo che a quanto si può vedere non ha commesso nulla di male, se non cercare di insegnare un senso di giustizia “sociale” e spingere i poveri a cercare di migliorare la propria condizione.

Nemmeno Pasolini (per non parlare di Zeffirelli e degli altri che si sono cimentati) aveva osato mostrare un Cristo così lontano dall’iconografia classica, di farlo maltrattare tanto e con tanta violenza, farlo gemere in maniera così poco divina. Fiorenzo Mattu non solo non ha la bellezza da immaginetta del Gesù biondo con gli occhi azzurri, ma nemmeno quella mediorientale del “Vangelo secondo Matteo”: potrebbe essere benissimo un ladro di pecore o cavalli da paesino sardo, e infatti è proprio questo il ruolo che interpreta nel film precedente di Columbu, il capolavoro “Arcipelaghi”.

Questo Gesù che potrebbe benissimo essere un bandito o un “sovversivo” linciato sommariamente nel far-west isolano, come tanti finiti a fucilate o coltellate invece che su una croce, suona anche come un promemoria per chi ha sempre fatto finta di non vedere i tanti poveri cristi che ha intorno. Come già in “Arcipelaghi”, anche qui si parla di omertà e codici ancestrali violenti, ma senza un monito esplicito che non siano le magistrali inquadrature sghembe o i gemiti di un uomo brutalmente inchiodato su una croce e straziato, rinnegato, insultato da cane rognoso (cane e sterzu) dallo stesso popolo sardo che probabilmente aveva tanto amato.

Proprio Pasolini aveva esteso il dolore del “figlio dell’uomo”, quasi profeticamente, ai tanti che (come lui) erano destinati a subirne uno simile: “Noi staremo offerti sulla croce, alla gogna, tra le pupille limpide di gioia feroce, scoprendo all’ironia le stille del sangue dal petto ai ginocchi, miti, ridicoli, tremando d’intelletto e passione nel gioco del cuore arso dal suo fuoco, per testimoniare lo scandalo”.