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Intervista a Giovanni Nuscis, Potere al Popolo

Le INterviste di IteNovas.com sulle elezioni politiche del 4 marzo 2018. Quattro domande, sempre le stesse per tutti i candidati, sui temi caldi di questa campagna elettorale. 

L'intervista odierna è con un protagonista delle prossime Elezioni politiche del 4 marzo, in particolare un candidato nei collegi della Sardegna. Oggi risponde alle nostre 4 domande Giovanni Nuscis di Potere al Popolo, candidato nel collegio uninominale di Sassari per la Camera dei deputati. 

Qual è la novità di queste elezioni? Perché un sardo deluso dovrebbe recarsi alle urne?

La novità è che una parte consistente della popolazione, quella che più ha sofferto in questi anni la mancanza di un lavoro e di un reddito troverà finalmente una forza politica, Potere al popolo,  in grado di rappresentarla in Parlamento, dove si decidono questioni fondamentali   anche per la nostra Isola: l’utilizzo spesso dissennato e iniquo delle risorse pubbliche, le riforme che dovrebbero generare nuovo e buon lavoro, la tutela della salute, dell’ambiente, dell’istruzione,  del diritto alla mobilità; nonché il diritto delle comunità di decidere in via esclusiva, nei vari ambiti territoriali, le scelte che le riguardano. Un sardo deluso deve recarsi alle urne e votare Potere al popolo perché il suo programma non è stato scritto da un’agenzia pubblicitaria, ma da migliaia di persone impegnate da anni in lotte a difesa dei diritti, in modo democratico attraverso  centinaia di assemblee in Sardegna e nella penisola. Un sardo deluso deve recarsi alle urne e votare convintamente Potere al popolo ricordando quali  forze politiche hanno contribuito più di tutte, in oltre vent’anni, a consegnare le istituzioni a poche ed agguerrite  lobby; chi ha trasformato la Sardegna in terra di conquista e pattumiera di cemento e veleni; chi ci ha svenduto ad interessi che stanno fuori da questa Isola, rendendo la politica un luogo estraneo e scollegato dagli interessi reali dei sardi. Potere al popolo si propone dunque come forza politica di rottura e di cambiamento radicale rispetto a chi ci governa e ci ha governato in questi anni, con  politiche neoliberiste dentro una visione lobbistica e impreso-centrica dell’economia, che non solo non ha creato più lavoro, ma ci ha reso più poveri e inermi rispetto alla scaltra aggressività che si nasconde nel mito delle “competenze”, invocate dalle oligarchie a giustificazione della loro egemonia.  

Per la Sardegna serve autonomia, sovranismo o indipendenza? E perché? 

Per la Sardegna, e non solo per essa, serve raccordare democraticamente gli interessi  e il sentire delle comunità con le scelte politiche reali, ai vari livelli.  Nel programma di Potere al popolo, al punto 2 – Unione europea, è scritto: “Per questo lottiamo per: […] il diritto dei popoli ad essere chiamati ad esprimersi su tutte le decisioni  prese sulle loro teste a qualunque livello – comunale, regionale, statale, europeo – pregresse o future, con il ricorso al referendum.”  La Sardegna è ben più di una regione (d’Italia), ed è anche ben più di una regione a statuto speciale, per storia, condizione geografica e senso di appartenenza dei suoi abitanti. Lo sforzo dei costituenti di dare giusto riconoscimento alla reale identità di quest’Isola non ha portato purtroppo a risultati apprezzabili. L’autonomia prevista nella Carta costituzionale, rimasta appunto sulla carta, e nello  Statuto sardo sono cosa risibile se pensiamo  a quanto abbiamo dovuto subire nel corso dei secoli e negli ultimi decenni. Sul nostro territorio c’è il 61% (!) di tutte le servitù militari esistenti in Italia; 400.000 (!) ettari di territorio sono stati avvelenati da industrie imposte da Roma d’intesa con alcuni notabili politici, sardi, dell’epoca, con l’illusione, per la popolazione, di un benessere certo e duraturo; termovalorizzatori ed impianti energetici inquinanti e devastanti per l’ambiente e il paesaggio; e vi è ancora il rischio di vedere collocate nella nostra Isola anche le scorie radioattive. Abbiamo inoltre  un sistema di trasporti penoso e ostacolante per noi sardi e le nostre famiglie e per la nostra economia, che cerca di crescere e sviluppare anche oltre il Tirreno; il nostro diritto alla mobilità è ostaggio di assurdi vincoli europei, per il trasporto aereo, degli interessi monopolistici delle compagnie navali nonché del miserrimo servizio di Trenitalia soprattutto nel nord Sardegna, che ha voluto investire più sull’alta velocità che sul miglioramento delle reti regionali come la nostra. Sono stati promessi interventi migliorativi: vedere per credere. Col fallimento dell’autonomia, ancora prima di essere attuata, non resta a mio parere che consultare la popolazione sulla via più giusta e condivisa da intraprendere per restituirgli voce, diritti e dignità. Da non indipendentista, vedrei bene una riforma dello Stato in senso federale, un restare, insomma “diversamente uniti”, con dignità di popolo, di lingua e di cultura, decidendo liberamente sulle materie su indicate e altre, senza che questo sia una gentile concessione di qualcuno. In questa  soluzione non vi è nessuna affinità, naturalmente, col federalismo egoistico della Lega. Il diritto di esprimerci in ambito locale nei diversi livelli, su alcune materie in particolare (ambiente, infrastrutture, mobilità, sanità, scuola) ma non solo, se richiesto di un dato numero di cittadini, dovrebbe imporre alle istituzioni locali – comuni e regione - l’utilizzo sistematico di idonei strumenti di consultazione.  

Cosa ritiene di poter fare in Parlamento per i suoi concittadini di un’isola troppo spesso dimenticata?

Lavorerei per rendere concrete le proposte alle quali ho accennato al punto precedente: 1. Utilizzo di strumenti di democrazia partecipata, ai diversi livelli, nelle materie e nelle scelte che più condizionano le nostre esistenze; 2. Previa consultazione delle popolazioni  e coinvolgendo i massimi esperti, elaborazione di un progetto di riforma che ridisegni i giusti ambiti di sovranità nelle suddette materie, a vantaggio della  Sardegna e degli enti territoriali in genere, contenendo il protagonismo statale che col pretesto di uniformare legislazioni e prassi nei diversi territori, asfalta in realtà i diritti e le giuste rivendicazioni delle popolazioni, dando origine a lotte e contrapposizioni  decennali; 3. Ferme restando le necessarie assunzioni con contratti a tempo indeterminato a sostegno e rafforzamento del welfare, un grande piano per il lavoro e l’occupazione così come è stato progettato per la Sardegna  dal Comitato sardo per il lavoro, la dignità e la vita, di cui hanno fatto parte L’Altra Sardegna, Il Fronte indipendentista unidu e la Confederazione sindacale sarda. Un piano da finanziare attraverso le economie  ottenute dalla cessazione degli appalti pubblici per la costruzione delle grandi opere inutili  e di  quelle non complesse, da far eseguire direttamente dagli inoccupati adeguatamente formati e coordinati; da finanziare inoltre con lo stop all’enorme quantità di contributi e sgravi fiscali dati alle imprese, rivelatisi inefficaci a creare buon lavoro stabile. Una grande quantità di persone, adeguatamente formata, sarebbe così immessa nel mondo del lavoro in modo liquido, dove ce n’è bisogno, a sostegno dei servizi pubblici in cui il blocco del turnover ha ridotto all’osso gli organici, delle imprese private meritevoli o a sostegno dello sviluppo settoriale attraverso i progetti locali coerenti coi fabbisogni dei territori; ciò in cambio di una retribuzione pari alla soglia di povertà relativa (circa 780 euro mensili), per la durata di almeno tre anni, con un impegno  non superiore a quattro giorni la settimana, a seconda della professionalità posseduta. Le risorse non mancano, ma serve una coraggiosa azione redistributiva; 4. Altro tema che necessità di un impegno legislativo urgente è quello dei beni comuni (acqua, spazi urbani, terreni ad uso civico, immobili sdemanializzati), per frenare lo spossessamento e la svendita in atto da parte degli enti pubblici, nel cieco furore neoliberista. Essi sono beni fondamentali per una comunità, e pertanto irrinunciabili e inalienabili affinché siano e restino fruibili da tutti e protetti da ogni tentativo di privatizzazione e sfruttamento; il caso dell’exQ, a Sassari – spazio diventato comune ed utilizzato per convegni, concerti, corsi, assemblee, spazi creativi - è stato un caso paradossale, in cui l’amministrazione provinciale, invece di effettuare gli interventi necessari per metterlo  a norma, regolamentarlo  e  renderlo meglio vivibile e accogliente, come hanno fatto intelligentemente altre amministrazioni pubbliche in altre città, ha preferito invece denunciare e cacciare gli occupanti, murando l’ingresso. E’ importante a mio parere provvedere con urgenza ad una codifica di questi beni (come inizio  fare la “commissione Rodotà"), allargando questa tipologia a tutti i beni non più di uso demaniale (immobili inutilizzati), o abbandonati dai privati (terreni e immobili, fabbriche dismesse e macchinari acquistati con fondi pubblici) per restituirli alle comunità.   

Cosa pensa di insularità e Zona franca? Sono soluzioni praticabili che possono essere proposte alle camere?

Dovremmo preliminarmente domandarci se è giusto che alla Sardegna, con la sua identità e la sua capacità di produrre reddito, venga impedito tra le diverse cose di modulare il prelievo fiscale –almeno per la parte che resta nell’Isola– sulla base delle sue necessità e strategie economiche.  Questo, intendiamoci, potrebbe anche essere un bene, una garanzia a tutela della popolazione contro eventuali colpi di mano dei governi regionali, diciamo, troppo sensibili agli interessi delle lobby, e dello stesso principio di uguaglianza; ma trovo ciò comunque ingiusto, perché i sardi sono geograficamente svantaggiati (ma anche su questo punto  la cosa è opinabile) e dunque meno uguali di altri, almeno per questo aspetto: spostarsi in nave nella penisola, per necessità e non per diletto, costa quanto  il salario di un mese. C’è dunque un problema, a priori: quello di ridefinire un nuovo equilibrio di sovranità e competenze tra ambiti territoriali e istituzionali diversi; vale perciò quanto ho scritto al secondo punto; e cadrebbe in questo modo anche il problema del riconoscimento dell’insularità, così come quello  della zona franca. Ciò premesso, proprio a proposito della zona franca andrei cauto: ridurre il prelievo fiscale non è senza conseguenze per la comunità sarda, e il rischio sarebbe ritrovarsi con minori risorse per garantire i servizi pubblici essenziali. In tutta franchezza, vedo un rischio non diverso da quello rappresentato della flat tax proposta da Berlusconi; in un momento come questo  c’è invece bisogno di destinare risorse adeguate per dare finalmente lavoro e dignità a tutti.  

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