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La costante resistenziale sarda di Giovanni Lilliu

La costante resistenziale sarda di Giovanni LilliuNel clima culturale e politico della fine degli anni Sessanta e primi Settanta si inserisce lo scritto politico più celebre di Lilliu.

Incipit

Particolarmente fecondo di risultati, negli studi di archeologia e di storia dell’arte antica di questo primo quarantennio di secolo, fu il tentativo del Coellen di comporre la storiografia artistica in coppie di concetti antitetici sulla base dei postulati del neoidealismo per la storia del linguaggio. Il von Schlosser ha rilevato che, fra le stesse coppie, il successo maggiore spetta a quella “cubista”, o antinaturalistica, del mondo barbarico e “organicistica”, ossia naturalistica, del mondo classico; e su di essa ha visto configurarsi un’isola ellenica, “bella” nel senso della perfezione formale come l’intendevano il Winckelmann e gli antichi stessi, nel vasto mare del barbarico “non finito”. Applicando questa sorta di chiave magica, lo Snijder ha potuto così penetrare i segreti della civiltà artistica figurativa “geometrica” che si esprime con immagini concettuali (Denkbild) contro Creta e Micene che parlano un linguaggio ottico (Sehbild); il Khramer ha posto l’antitesi tra l’arte egizia, paratattica, e la greca arcaica, ipotattica; il Kashnitz von Weinberg e il Matz hanno scoperto l’originalità dell’arte etrusca e italica in genere, specie nella ritrattistica; e, da ultimo, il geniale Rodenwaldt ha valorizzato l’universalità dell’arte romana tarda, le cui forme decadentistiche introducono alla cultura figurativa medievale dove le cifre plastiche classiche si annullano nel pittoricismo anticlassico che il vecchio Wickoff chiamava “trascendentale”.
Chi si fa a considerare la civiltà della Sardegna, facendo uso delle antinomie del “classico” e del “barbarico”, non ha da sforzarsi grandemente per inquadrare le sue espressioni figurative nella seconda. Lo notava, già nel 1909, il Pagenstecher, dopo una breve visita all’Isola che ebbe a definire «italienfremde», straniera all’Italia, dando al termine “Italia” non una significazione geografica e politica ma un contenuto caratteristico di gusto: precisamente di gusto classico. E davvero non vi è altra terra da noi dove la nota del barbarico risuoni più distinta che in questa landa isolata, la più antica del resto, nata nelle lontananze misteriose dell’azoico. Qui il divenire del tempo sta contro la fissità dell’origine; qui vi è quasi una sorta di terrore religioso della perfettibilità; qui una rude forza ancestrale sembra debba imprimere in tutto il suggello dell’essenziale senza contorni. Terra di espressioni pure è la Sardegna, che non amano conchiudersi nel binomio classico, non superabile, del pulchrum-verum. Certo nell’assenza, in genere, di questa sollecitazione amorosa verso il perfetto sta un motivo della deficienza di grandi “creatori” nell’Isola, ed anche del suo arretramento culturale rispetto ad altre regioni del “classico”; ma, d’altro lato, in codesta essenziale soddisfazione delle piccole cose, senza aspri tormenti, è uno dei suoi tratti più suggestivi: la freschezza primordiale caratteristica di ogni mondo barbarico.
Pure espressioni e piccole cose costituiscono i segni, oggi come in antico, della civiltà e dell’arte, nell’Isola; e, tolta qualche parentesi “organicistica”, appare tutto un fluire placido, senza soluzione di continuità, di determinati, soprattutto plastici, della categoria del “cubista”.
Quegli artisti del III millennio a.C., eneolitici, i quali ritagliarono sul marmo con struttura di lamina entro cerchi e quadri e con linee e rilievi “innaturali” le forme delle “venerette” di Ànghelu Ruju, Senorbì ed anche di quelle trovate di recente a Porto Ferro nella Nurra, inscientemente sentivano la natura con gusto barbarico. La produzione dei bronzetti nuragici sta, quasi tutta, nella stessa direzione. Un “sensualista” moderno potrebbe invidiare la fattura del capotribù di Uta, costruito volumetricamente nella testa e così “rigido” che il “classico” Cicerone ne avrebbe riso di gusto al vederlo, egli che criticava piuttosto severamente, perché lontane dalla “verità”, le statue assai “rigide” dello scultore greco arcaico Canachos.


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N. D.

Nel clima culturale e politico della fine degli anni Sessanta e primi Settanta si inserisce così quello che, nonostante tutto, ha finito per diventare lo scritto politico più celebre di Lilliu, in cui sintetizza in una espressione felice e in un titolo indovinato il suo pensiero storiografico: La costante resistenziale sarda.

È un intervento al convegno Resistenza individuale e collettiva.

L'incipit del saggio è di rara efficacia. Lilliu ne sintetizza in modo icastico il contenuto: "La Sardegna, in ogni tempo, ha avuto uno strano marchio storico: quello di essere stata sempre dominata (in qualche modo ancora oggi), ma di avere sempre resistito. Un'isola sulla quale è calata per i secoli la mano oppressiva del colonizzatore, a cui ha opposto, sistematicamente, il graffio della resistenza".

Egli è convinto che i Sardi, nonostante "l'aggressione di integrazioni di ogni specie", siano "riusciti a conservarsi sempre se stessi" nella "fedeltà alle origini autentiche e pure" [...] (dalla prefazione di Antonello Mattone).

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