Logo

Racconto | Imbarazzanti gioventù

Racconto inedito e completo da leggere il weekend sotto l'ombrellone o al fresco di un bosco, oppure in casa durante una giornata uggiosa, tutto per voi, i nostri lettori affezionati di IteNovas.com. Buona lettura!

IMBARAZZANTI GIOVENTÙ di Luigi Citroni

Quando penso alla mia infanzia e a ciò che essa è stata per me, nella mia mente senza che io possa far nulla per evitarlo, prende forma una fitta trama di pensieri che pian piano si intersecano fra loro, fino a dar vita a un concetto di disagio molto più ampio di quello che si può immaginare. Un pensiero elaborato, ricco di particolari, tessuti a maglie strette come un tappeto.

Soprattutto quando decido di ricordare gli anni, tra elementari e medie, trascorsi a pascolare lungo i corridoi di casermoni di stampo fascista, dove anche la luce sembrava avesse qualche riserva nell’attraversare il vetro opaco di quelle finestre.

Ma ciò che realmente mette in moto questo baluginare di istanti, alcuni ormai appassiti dal tempo, è il ricordo di un pugno scagliato a occhi chiusi, quando ancora i lembi del mio grembiulino nero sapevano di piscio stantio; di tutte quelle volte in cui centrare il piccolo gabinetto racchiuso tra mattonelle bianco pallido, era un’impresa degna di nota.

Tutto ha inizio così quindi, dal buio che precede di qualche istante il brusco contatto delle mie nocche con lo zigomo di quel gran coglione di Francesco Loddo. Allora il telaio nascosto sotto le mie meningi inizia a tessere, instancabile, fino al momento in cui questa storia arriva al suo epilogo, anche in questo caso tra nocche rosse e occhi che lacrimano.

Ora che sono un uomo grande ed emancipato, senza più nessun tipo di rapporto con la scuola, d’un tratto sembra sia diventato capace di ragionare a mente lucida su tutto ciò che di sbagliato poteva esserci al tempo.

Detto così sembra persino che al giorno d’oggi sia uno di quelli con le idee chiare, che capisce finalmente come devono andare le cose, ma devo ammettere non c’è niente di più lontano dalla realtà. Non tanto perché non ne sia capace, ma perché sono pur sempre uno dei tanti frutti della mediocrità che sboccia proprio in chi diventa adulto solo per diritto di natura. In quelli che alla vista del capello bianco e ai primi accenni di pancia alcolica, condannano il tempo per essere passato inesorabile sulla loro pelle.

In ogni caso, con la mia maturità presa in prestito da tanti sbagli mai del tutto assimilati, riesco comunque a riflettere su quelle discrepanze pedagogiche che hanno sorretto per anni e anni i solai crepitanti di quella nostra cara scuola.

Ma a chi voglio prendere in giro? Parliamoci chiaro, tutto ciò che posso intuire come incongruente con la pedagogia non è il frutto di un ragionamento assennato, ma nasce dalla prima ingiustizia che mi ha visto tirato in ballo, da quel suono sordo, da quello STAC che tutti noi abbiamo sentito nell’androne prima che la campanella suonasse l’inizio delle lezioni; dalle voci dei miei compagni che bisbigliavano “ceee Antero ha picchiato Francesco!” o di chi con meno discrezione ululava al soffitto “Maestra…Antero ha dato un pugno a Francesco Loddo”.

Brutte spie.

Il nostro grande insuccesso educativo iniziò proprio quando riaprii gli occhi, e mi vidi circondato da un nugolo di bambini in nero che ronzavano intorno a noi due come mosche intorno alla merda.

Ricordo che in men che non si dica, preceduta dal suo nauseante aroma di acqua di colonia dozzinale, arrivò maestra Rosina, quell’infima tiranna, che con poche manate e urla ben assestate, disperse uno sciame di sadici mocciosi che già da allora avrebbero voluto vedere il sangue sgorgare e spandersi sul pavimento.

«Che cosa è successo?» sbraitò, e ancor prima che qualcuno potesse fare il punto della situazione, si fiondò su Francesco Loddo che dolorante si manteneva lo zigomo, circondato dalle più belle bambine della mia classe.

Quello stronzo

«Oh mio Dio! Francesco cosa è successo?» chiese affranta, mentre con la grazia rubata a una bufala in menopausa scivolava verso di lui per stringerlo contro il suo ampio seno.

«Antero Brigaglia gli ha dato un pugno in faccia maestra».

Ora non ricordo da dove venisse quella voce, non ho memoria di quella subdola canaglia che non provò pietà nel concedermi al carnefice, ma nel giro di pochissimi secondi mi avevano venduto e condannato.

Io ero qualche metro dietro Francesco e le sue crocerossine, intrappolato in un angolo, piccolo come un sorcio con le scarpe incrostate dal fango, i pantaloni rattoppati e un dito ficcato quasi del tutto nel naso, mentre con la bocca aperta e qualche centimetro di lingua penzolante ormai aspettavo la mia fine.

«ANTERO BRIGAGLIA…IN PUNIZIONE!» urlò quella maledetta «e ora fila in classe!» .

Le sue urla rimbombarono in tutto l’edificio.

Parlare per me in quel caso sarebbe servito solo a peggiorare la situazione, quindi me ne andai in classe scortato dai bidelli che impassibili mi camminavano affianco.

Manco fossi un prigioniero.

Ma in fin dei conti cosa potevo fare? Aprire bocca per giustificarmi sarebbe stato pressoché inutile, dopotutto avevo pur sempre alzato le mani e già per questo avevo perso in partenza, anche se sapevo di aver ragione.

Io non avevo fatto altro se non ribellarmi a tutte le prese in giro che ogni giorno eravamo costretti a subire da parte di quel gran simpaticone, e quella mattina, dopo l’ennesima volta in cui lo sentii chiamare Leonardo “straccione puzzolente” non c’ho visto più.

La cosa peggiore fu che nessuno volle ascoltare la mia versione, al contrario l’intera scuola si strinse intorno a Francesco, alla vittima di un atto da condannare.

Sembrava che nessuno si accorgesse di che figlio di buona donna fosse quel bambino. Nessuno fece mai caso alle costanti prese in giro che riservava a tutti quelli che in qualche modo non sapevano come difendersi. Al contrario veniva osannato dalle maestre. Era il più bravo, il più intelligente, il più corretto, il più umano e tutti noi non potevamo che prendere esempio. Poi non bisogna dimenticare che era il più bello, in assoluto. Non c’era bambina, madre o insegnante che non ne fosse in qualche modo innamorata. Di quei suoi capelli sempre ingelatinati, di quella sua faccia liscia e di quei denti perfetti, puliti, dritti e splendenti.

Non posso dire che noi altri poveri mortali fossimo gelosi di lui, perché non sarebbe vero, ma posso affermare che avremmo tanto voluto vedere il suo tracollo, che per ironia della sorte non arrivò mai.

Forse l’abbiamo desiderato talmente tanto che alla fine non siamo stati altro che un talismano contro la iella. È stato come se l’avessimo protetto dalle nostre stesse maledizioni.

Io…devo essere sincero, non ho mai sofferto veramente per le sue cattiverie. Avevo il mio gruppo di amici con i quali condividevo anche il cesso in ogni occasione, e per questo non potevo chiedere di meglio. Sì certo venivamo derisi fino all’umiliazione, ma ci prendevamo la nostra rivincita quando la sera, dopo aver fatto i compiti, cospiravamo le peggiori cose per eliminare il male dal nostro mondo.

Inutile dire quanto fosse banale ciò che potevamo provare a quell’età. Come possibile ripicca al massimo si poteva immaginare un ragnetto camminare sulla spalla di Francesco mentre lui si dimenava mosso dal terrore.

Insomma la nostra indole ci spingeva a essere abbastanza moderati.

La verità è che non eravamo noi le sue prede preferite, ma gente come Leonardo Sotgiu, ovvero coloro che dalla vita avevano ricevuto solo calci in pieno volto.

Leonardo era un ragazzo dalle doti poco spiccate.

Anzi parliamoci chiaro era ciò che di più lontano ci potesse essere dall’intelligenza.

Potrei dire che per sopperire a questa mancanza vantava un bel aspetto, ma anche in questo caso mentirei spudoratamente. Se l’intelligenza non era di casa la bellezza lo era ancora meno.

Vorrei poter dire che almeno poteva consolarsi tra le braccia di genitori amorevoli, ma questa sarebbe la bugia più grossa di tutte.

Ma aveva una dignità al pari della mia e di tutti gli altri, nessuno avrebbe mai potuto dire il contrario, né di lui né di nessun altro a questo mondo, e questa dignità in quanto tale andava rispettata.

Mi piacerebbe dire anche che Francesco fu l’unico a non farlo. Davvero vorrei fosse la verità assoluta. Vorrei urlare al mondo intero che solo un bulletto pisciasotto fu in grado di calpestare l’innocenza di un bambino esposto alla bufera, ma mentirei ancora una volta.

Vorrei poter dire ad alta voce che i nostri insegnati riuscirono nonostante mille difficoltà, a preservare e a coltivare quel bene costretto a emergere dal fango, ma anche questo non lo posso fare.

Posso solo dire che per me e i miei amici veniva naturale fare ciò che tanti altri non consideravano nemmeno come opzione. Non eravamo perfetti nemmeno noi, dopotutto eravamo bambini, ma gentili, quello sì, lo eravamo per davvero.

In ogni caso Leonardo non era l’unico in classe mia ad avere problemi che giocavano lungo il confine tra il sociale e il mentale, quindi capitava spesso che l’attenzione di Francesco si spostasse verso qualcun altro. In base al giorno o al piede con cui si alzava dal letto, egli decideva chi dovesse essere il destinatario del suo ribrezzo provato senza mezzi termini nei confronti di quegli esseri imperfetti che eravamo.

Comunque lo devo dire…era veramente bravo nel fare quello che faceva. Sapeva prendere in giro le insegnati che lo osservavano in preda a imbarazzanti bollori, mentre scaricava il suo odio proprio davanti agli occhi di tutti, e nessuno osava dire niente. Nessuno lo vedeva.

Era un genio. Una minaccia multitasking che abbindolava e colpiva senza pietà mentre conduceva una vita da studente modello, senza macchia.

Qualcuno potrebbe anche chiedersi: ma perché non lamentarsi di lui con chiunque? Bella domanda.

Noi…ecco…non è che non lo facessimo, ma le nostre lamentele erano come dire…come scoregge nel vento, delle quali né si sente il rumore né l’odore.

Credo piuttosto che qualcuno abbia capito qualcosa solo dopo il pugno sferrato in quinta elementare. Credo dopo l’incontro tra il corpo docente e i miei genitori, i quali con calma serafica accettarono sì i rimproveri al vetriolo elargiti dal dirigente, ma allo stesso tempo chiesero di aprire gli occhi e valutare se effettivamente la responsabilità del fattaccio non fosse da condividere.

Ammetto che a casa i miei mi rimproverarono solo perché alzare le mani sminuisce l’essere umano in quanto entità razionale, ciò nonostante vedevo che nelle loro parole, nella loro inusuale pacata ramanzina, si celava un senso di giustizia simile al mio.

«Guarda che se hai deciso di risolvere i problemi in questo modo hai sbagliato numero di porta» disse mio padre «se vuoi diventare uomo non è questo il modo, e per esserlo come Dio comanda devi essere più forte di un energumeno che risolve le faccende con la violenza».

Esagerato, ma aveva ragione.

Mio padre aveva sempre ragione, magari per tante cose la pretendeva senza motivo, ma la vita la capiva e sapeva bene cosa volesse dire essere uomo con la U maiuscola.

Comunque le cose alle scuole medie in qualche modo cambiarono. Pensavamo ormai di essere cresciuti e di conseguenza il nostro atteggiamento era quello di chi aveva ben poco da chiedere alla vita. Naturalmente eravamo ancora insignificanti esseri pidocchiosi e i professori ce lo ribadivano senza troppi giri di parole ogni giorno; ciò nonostante la danza disordinata dei nostri ormoni ci portava persino a guardarli negli occhi e a sparargli un ghigno e un vaffanculo, nascosto naturalmente tra i sospiri di un adolescenza rubata alle campagne.

Perché fondamentalmente eravamo quello ma soprattutto dimostravamo quello, ovvero menti e corpi da concedere alla polvere piuttosto che allo studio.

Forse ora esagero, ma in ogni caso mentirei se dovessi nascondere che per alcuni dei miei compagni di classe la scuola era solo un posto dove tergiversare per qualche ora.

Molti di loro arrivavano la mattina guidati dai genitori come bestie da soma, e come tali venivano legate al palo e lasciate là a temporeggiare fino all’una e mezza del pomeriggio.

Gran parte di loro ancora oggi non sanno né leggere né scrivere, non sono capaci di potersi esprimere in modo da essere compresi, e cosa più importante vivono solo perché il tempo concede loro ore e giorni da contare.

Non serve essere geni per capire che tutto ciò è stato il frutto di un’educazione scolastica quasi completamente evanescente.

Dopotutto a chi interessava? A nessuno o meglio a qualcuno sembrava andasse persino bene coltivare piante destinate ai rovi.

Ma Francesco Loddo no. Lui non era così, lui era sempre sul pezzo, proveniva da un altro pianeta, sempre pronto a mortificare la nostra sbadataggine socio-culturale.

In seconda media il suo ego era talmente ingombrante che esondava, ricopriva e soffocava ogni altra forma di vita.

Diventava ogni giorno più belloccio e arrogante, e sempre con una sfilza di cornacchie a svolazzargli intorno. Si era fatto pure l’orecchino, il bastardo, che cambiava a seconda degli abiti, i quali costavano più di tutto quello che noi potevamo possedere.

E in questa nuova realtà, mentre noi sbavavamo dietro le prime forme appena accennate delle nostre amichette, vergognandoci come ladri per quelle imbarazzanti erezioni fuori controllo, con i nostri brufoli e la nostra puzza, guardavamo quello là sbaciucchiarsi con le signorine, tra un tiro di sigaretta e l’altro.

Noi eravamo fatti di un'altra pasta.

Eravamo composti per lo più da ingenuità e insicurezze, da spavalderia e timidezza, e da quella voglia di rimanere attaccati all’infanzia che in un modo o nell’altro cedeva velocemente il passo alla pubertà.

Ciò nonostante dentro di noi maturavamo precocemente un senso di giustizia. Niente di troppo trascendentale naturalmente, ma comunque iniziavamo a capire cosa potesse essere giusto e cosa sbagliato, e allo stesso tempo prendeva possesso del nostro essere una rabbia difficile da categorizzare, la quale ci portava a urlare a gran voce: no cazzo! Questo non è giusto!

Col senno di poi mi vien da pensare potesse essere il nostro primo atto di ribellione. Il nostro primo passo verso ciò che volevamo fosse corretto per un mondo che, un domani, sarebbe stato abitato dai nostri figli.

Chissà cosa ci frullava in quella testolina.

Quello che so è solo che non saremmo mai stati così, o almeno non da subito, se non fosse stato per Francesco Loddo.

Se non c’avesse chiamati pezzenti figli di puttana; se non c’avesse sputato addosso per sottolineare ancor di più il suo disprezzo; se non avesse picchiato gratuitamente ogni giorno all’uscita di scuola Leonardo Sotgiu; se non gli avesse distrutto lo zaino con la lama del temperino; se non l’avesse umiliato nei bagni della scuola con gavettoni di piscio e se non avesse sbandierato ai quattro venti i nostri sentimenti, covati con parsimonia all’oscuro di coloro che avevano acceso la nostra libidine.

In questo modo tutt’altro che simpatico passarono gli anni delle medie. Uscimmo da quel tripudio di fallimenti con il tanto giusto di mancanze da poterci concedere al mondo dello studio con più di una riserva.

Naturalmente per quanto riguarda questo genere di inadempienze Francesco Loddo non centrava un bel niente, anche se non lo giurerei con la mano posata sulla bibbia.

La cosa positiva di quella scuola è stata che l’ultimo giorno, prima degli esami, il prosciutto che per anni stagnò inspiegabilmente sugli occhi dei professori, venne giù, e l’angelo che riscaldò i banchi con l’estro e le competenze di un premio Nobel si mostrò per quello che era in realtà: un ragazzino arrogante, prepotente, senza nessun rispetto per le regole e soprattutto senza nessun tipo di sensibilità per tutto ciò che esisteva al di là di lui.

Bello sì, finalmente qualcuno se n’era accorto, ma era pur sempre una magra consolazione. Ormai era tardi.

Per alcuni anche troppo.

Qualcuno tempo dopo osò persino dire che Francesco Loddo era un bullo come tanti altri, e la cosa ora come allora non mi convinse.

Io i bulli li ho conosciuti. Oh…se li ho conosciuti! Soprattutto durante gli anni del liceo, dopotutto il mio nome era Antero Brigaglia, quindi si può solo immaginare quante prese per il culo ho dovuto sopportate.

Posso dire inoltre che tutti quelli con cui sono entrato in contatto non facevano altro se non esorcizzare la loro frustrazione facendo del male a chi non lo meritava. Magari a volte anche in maniera efferata, ciò nonostante era chiaro fosse la tristezza, la rabbia per una vita concessa molto spesso alla misera, a parlare al posto loro. In certi casi era persino possibile regalare il perdono senza condizioni a coloro che ti avevano umiliato nel peggiore dei modi.

Semplicemente perché era giusto farlo.

Per Francesco le cose erano diverse. Lui sapeva di essere superiore in tutto, e la sua indole lo portava a dimostrare in tutti i modi quanto potesse sentirsi libero di giocare con il mondo come e quanto volesse. Non cercava attenzioni per rattoppare un mal d’animo nascosto chissà dove, no, lui cercava solo il modo migliore per piacersi sempre di più.

Alle scuole superiori divenne un idolo quasi dal primo giorno. Si camuffò da subito con la fauna indigena di Oristano, e in men che non si dica vantò amici in tutti gli istituti, e ragazze nuove ogni settimana, le quali lo accompagnavano a turno durante le vele del sabato mattina.

Come faccio a saperlo? Beh… perché semplicemente ci andavo anche io.

Di quel tempo ricordo le colazioni al Vienna a base di birra e pizzette. In quello squallido baretto dove si radunavano tutte le grandi promesse dell’ingegneria, della medicina e della letteratura. Ricordo le mille sigarette fumate ancor prima che scoccassero le nove e mezza, aspettando che la biblioteca pubblica aprisse. Non tanto per darci l’opportunità di leggere quel romanzo che mancava all’appello sulle nostre librerie, ma perché c’era un piccolo spazio, all’interno, dove poter guardare dei film.

Ricordo ancora il primo film che vidi. Paura e delirio a Las Vegas, completamente sballato.

Finito il film ricordo ci si perdeva inevitabilmente come pecore nei prati dei giardini dove nel giro di un’ora si era capaci di fumarsi tanti cannoni da svenire.

Ed era in quei contesti che io e Francesco ci incontravamo. Facevamo finta di non conoscerci naturalmente, ma allo stesso tempo io non riuscivo a distogliere lo sguardo da lui e a giudicarlo sommessamente. Al contrario lui non mi considerava nemmeno per sbaglio.

Dovevate vederlo al terzo anno di superiori: dread che scendevano a cascata lungo la schiena, dilatatori, piercing al naso e ogni giorno una maglietta di un gruppo diverso. NOFX, Rage Against The Machine, Red Hot Chili Peppers, Bob Marey, Nirvana, Pantera.

Sembrava che la sua intenzione fosse quella di indossare l’intera storia della musica dagli anni Ottanta a oggi, e senza nemmeno un nesso che potesse far intendere a un esterno quale fosse il suo genere preferito. Io sono convinto che non indossasse quella roba perché fosse in grado di apprezzare Blood Sugar Sex Magik o Punk in Druplic, ma credo lo facesse perché quella roba indosso a uno come lui mandava in estasi le giovani in cerca di nuove esperienze.

Ma la cosa che in qualche modo mi mandò ai matti non fu tanto la sua ignoranza musicale, anche perché quella è una prerogativa di gran parte dei giovani, ma fu il fatto che di punto in bianco divenne un comunista attento ai bisogni dei più poveri.

Ma vi rendete conto? Francesco Loddo, quel coso capace di dispensare odio persino ai genitori, era diventato uno che voleva stare dalla parte degli oppressi!

Va bene, ammetto che non fossi nessuno al tempo per giudicare gli altri, ma non potevo rimanere indifferente nel vederlo con il megafono in mano durante le manifestazioni rivendicando i diritti negati agli indigeni del Sud America, o sbraitando paroloni per l’abbattimento di ogni tipo di barriera di chissà quale posto sperduto nel mondo.

“Ma porca troia” pensavo “ma se veramente ti è venuta tale epifania, ma perché andartene in Sud America se accanto a te la gente implorava per essere aiutata?”.

Ma chi lo sa, forse anche io potevo esser esagerato, magari lui era veramente cambiato durante un percorso di pentimento, dopo essere venuto a conoscenza di quanto male avesse fatto dimora in questo pianeta.

Ma non passò molto tempo perché riscoprissi la sua vera essenza.

Difatti un giorno lo vidi in giro con i suoi amici.

Stretta in mano una bottiglia di Amaro Badoglio comprato dall’Eurospin, Golden Virginia tra le dita e poi giù con gli sputi e gli insulti agli zingari fuori dalla Standa.

Fu allora che capii quanto banale e fuori luogo fosse essere come lui. Quanto disgustoso fosse in fin dei conti tutto ciò che diceva o faceva. Messo accanto a lui sì potevo persino sembrare uno sfigato all’apparenza, ma dentro di me cresceva una coscienza, un’idea di mondo che uno come lui non avrebbe potuto comprendere.

La cosa ammetto mi rincuorò. Per la prima volta nella mia vita pensai di essere meglio di lui, di essere sulla via per diventare quella persona che lui non sarebbe mai stata. Provai persino pietà. Ma questo sentimento si ridusse nuovamente al disprezzo ogni qualvolta sentivo la sua voce implorare giustizia per chi non poteva garantirsela. Quando giungevano alle mie orecchie le sue elucubrazioni sul razzismo e su ogni tipo di discriminazione.

Ma come si poteva essere così? Come ci si poteva guardare allo specchio e adularsi, senza provare un briciolo di vergogna per essere un bugiardo? Per quella sua intolleranza perpetrata senza pietà nei confronti di chiunque non fosse socialmente approvato?

Pian piano capivo sempre più che l’intelligenza tanto decantata dalle maestre fosse solo un illusione. Sì perché credevo che saper fare di conto e avere una memoria ferrea per sostenere interrogazioni brillanti non fosse da considerare intelligenza se poi non veniva affiancata da quel senso di umanità che ti consente di stare al mondo per davvero.

Nonostante il mio disappunto, infine, me ne feci una ragione. Francesco Loddo smise di essere parte dei miei pensieri.

Rimasi fedele al mio scopo senza pensare a lui. Continuai a studiare cercando di migliorarmi, di crescere e così feci fino al diploma.

Non posso però negare di aver pensato tanto a tutto quello che fummo costretti a vivere tra le medie e le elementari, soprattutto quando capitava di incontrare Leonardo e tutti quelli che guardavano le ore passare al ritmo del loro muoversi claudicante verso la fine dei loro giorni.

Allora la rabbia prendeva il sopravvento e pensavo a lui e al suo finto perbenismo. Al suo essere tollerante e giusto solo a seconda delle circostanze. Alla sua pietà regalata ai bambini africani e mai concessa a coloro che avrebbe potuto aiutare realmente.

Avrei tanto voluto guardarlo dritto negli occhi e dirgli tutto quello che pensavo, e poi mollargli un pugno dritto nel naso. Ma che idiota sarei stato se l’avessi fatto?

Successe però che anni dopo il nostro diploma, in giugno, Claudio Sotgiu, un cugino di Leonardo, venne travolto e ucciso mentre correva in bici lungo una strada poco fuori il nostro paese.

Fu uno shock per tutti. Un dolore incommensurabile che sconvolse ogni anima del posto.

Una tristezza ancor più difficile da trattenere quando la mattina dopo il disastro, Manuel, il fratello di Claudio, pronto per sostenere l’esame di terza media, si presentò accompagnato da Leonardo davanti al portone della scuola, con l’intento di chiedere se per favore fosse stato possibile spostare l’esame. «Volevo chiedere se era possibile, perché ieri mio fratellino ha avuto un incidente e io ora non so come fare» disse.

Il dirigente che a stento riuscì a trattenere le lacrime lo accolse tra le sue braccia e gli sussurrò: «Manuel…se avessi potuto anche solo liberarti di un briciolo della sofferenza che ti affligge lo avrei fatto, ma non posso accontentarti. Non dipende da me. Perdonami».

A quelle parole i due svanirono tra l’afa di un estate che già si faceva sentire, con la consapevolezza che la loro vita in un modo o nell’altro sarebbe andata avanti, anche se a fatica.

Non scherzo se dico che tutto il paese smise in un attimo di vivere con serenità. La cosa toccò tutti, o almeno quasi tutti.

Quella notte seduti al bar, tra una birra e l’altra, si pensava alla vita. A quanto fosse imprevedibile. A quanto in certi casi fosse ingiusta.

Pensavamo a Leonardo, al povero Claudio, a Manuel e a tanti altri, e dentro di noi anche se in modo composto, gioivamo per tutte le nostre fortune. Per l’affetto ricevuto, per il bene e il male vissuto sempre con qualcuno alle nostre spalle in grado di darci supporto, e per tutto quello che ancora avremmo potuto vivere.

E fu in quel momento che Francesco scese dall’alto dei cieli per confondersi tra noi comuni mortali.  Proprio quando l’alcool ormai annodava le nostre lingue a ogni sillaba pronunciata.

Arrivò scortato dalla sua nuova ragazza e da altri amici continentali conosciuti all’università.

Con un fare da uomo ormai vissuto e collaudato prese posto proprio nel tavolino accanto al nostro, e si può solo immaginare quanto ognuno di noi fosse felice di sentire la sua voce il suo accento che sembrava camuffarsi con quello torinese.

Ma del resto non ci interessava più dare adito ai nostri fastidi, ormai lui per noi era meno di niente e come tale ci si stava abituando a trattarlo.

Ma come al solito la sua intelligenza in poco tempo fece cilecca, per l’ennesima volta, così che quando disse «Non vi preoccupate se non vedete molta gente in giro, ieri è morto un coglioncello figlio di handicappati…e oggi tutti a piangerlo» sentii un brivido attraversare il mio corpo e arrivare fino alla punta dei capelli che mi lanciò via dal mio posto, proprio verso di lui.

Allora, in piedi al suo cospetto, gli dissi «Loddo scusa…una parola» mentre con un gesto del capo lo invitavo ad alzarsi.

Lui si scomodò con fare infastidito e ancor prima che finisse di dire “ma tu che cazzo vuoi” gli scaricai sul naso un gancio destro che nemmeno Mike Tyson in tutta la sua carriera.

Lo vidi volare e ribaltarsi sopra il suo tavolino, tra bicchieri e bottiglie, mentre alle mie spalle partì un urlo come se avessi appena conquistato il titolo dei pesi massimi.

L’unica nota negativa fu che l’adrenalina accumulata non mi rese consapevole da subito di quanto mi fossi fatto male alla mano, così che a sangue freddo sentii letteralmente il mio pugno gonfiarsi e pulsare come il cuore di un bue.

Non so come sia riuscito a non svenire dal dolore e ringrazio Dio per non avermi concesso questa ennesima umiliazione.  

Chiesi allora in maniera discreta e senza lasciar trasparire tutta la sofferenza che covavo al mio interno, un passaggio per il pronto soccorso.

Ricordo che i miei amici mi caricarono in macchina con le riverenze degne di un re e che dopo essere partiti sgommando, festeggiamo come pazzi furiosi la rivalsa per un’infanzia passata a sopportare ingiustizie.

Dal giorno non vidi più Francesco Loddo.

Il mio rapporto con lui iniziò e finì con un pugno in pieno volto, così come le mie turbe mentali.

L’unico pensiero che la notte placò il mio entusiasmo fu: “E adesso chi cazzo lo sente a mio padre?”.

Foto: Wokandapix | Pixabay CC0

Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.